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Rodolfo Lollini

Rodolfo Lollini

Mercoledì, 24 Gennaio 2018 09:34

Storia del Palasport di San Siro: 2 - I fasti

La genesi, i fasti, il crollo, la mancata ricostruzione e le prospettive future

Seconda puntata

 

Link Prima puntata

 

L’impianto

La struttura, progettata dall’architetto Valle per quanto riguardava gli aspetti architettonici e dall’ingegner Romaro per la copertura, si distingueva per dimensioni e  bellezza estetica. Proprio  per questi motivi, oltre che per l’innovativa soluzione tecnica della copertura, nel 1976 il progetto vinse il premio della Convenzione Europea per le Costruzioni Metalliche. Il palasport era costituito da una struttura in cemento armato a pianta ellittica, con ben 24 ingressi e che ospitava le tribune poste sui lati della vasta platea. Da questa struttura si innalzavano 35 mensole, distribuite sul perimetro che sostenevano la copertura, coprendo una superficie di 15.500 mq. Il tutto senza colonne intermedie. Bellissima.

La platea accoglieva una pista ciclistica, con curve sopraelevate, di lunghezza pari a  250 metri e con larghezza 7 metri, molto più bella di quella del Palafiera che era più stretta e corta. Vi era poi una pista per la corsa a quattro corsie, anch’essa regolare in quanto lunga 200 metri. Ampi spazi potevano facilmente accogliere tutte le attrezzature per le varie specialità  dell’atletica leggera. Al centro c’era spazio per un parquet per il basket o il volley, anche se quest’ultimo non entrò mai nell’impianto. Oppure il ring per il pugilato, insieme a delle tribune supplementari. In quest’ultimo caso la capienza aumentava da 12.300 spettatori ad oltre 15.000.  Il Palasport aveva pertanto una capacità d’accoglienza superiore al Palazzo dello Sport di Roma ed al mitico Madison Square Garden dell’epoca.

 

I fasti extra-sportivi

Oltre allo sport, il palazzone ospitò molti altri eventi importanti. Nel tardo pomeriggio del 23 maggio 1983, dopo sei secoli dall’ultima visita pastorale papale, Giovanni Paolo II incontrava le religiose  presentate dal cardinale Martini. Ma la lista dei protagonisti è lunga, dalla politica, col leader del PCI Berlinguer, all’opera lirica della Scala. E poi i balletti, Holiday on Ice, Giochi Senza Frontiere. Passando per tanti concerti. I primi ad esibirsi furono gli Inti Illimani, un gruppo folk cileno che ai tempi andava per la maggiore. Gli ultimi furono i Queen. Per non parlare di quella serata estiva con Reinhold Massner, appena rientrato da una delle sue quattordici scalate oltre quota ottomila. Erano presenti migliaia di persone, tanti dovettero addirittura restare fuori e nonostante il caldo allucinante, restammo tutti in religioso silenzio ad ascoltare la sua avventura.

 

Gli altri sport

Come accennato nella prima puntata, il Palasport era nato per accogliere il ciclismo ed infatti era un grande velodromo coperto, buono anche per l’atletica, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, ed altri spettacoli, ma poco adatto per altri sport, o meglio per gli spettatori. 

Nel ciclismo, la prima sei giorni fu un successo memorabile, col trionfo della coppia formata dal campione d’Italia in carica, Francesco Moser, e dal belga Patrick Sercu. Accorsero quasi 90.000 spettatori.

Ci fu spazio anche per il tennis al massimo livello. Un torneo WTC con Borg a battere in finale Gerulaitis. La ginnastica ospitò Nadia Comaneci, la prima atleta al mondo ad ottenere un 10. Presente anche la boxe, con incontri validi per la corona mondiale o continentale, come Antuofermo-Warusfel, Arcari-Mattioli, Stecca-Cruz, McCallum-Minchillo che registrarono spesso il tutto esaurito.

Lunghissimo il capitolo del basket, tra tornei della nazionale, campionato e coppa campioni. Erano gli anni della Xerox dello sceriffo del Nebraska, Chuck Jura, ma soprattutto l’inizio dell’epopea dell’Olimpia di Dan Peterson, Meneghin e D’Antoni. Come  spettatore posso purtroppo confermare come, in queste occasioni, si formassero tre gruppi ben definiti, i primi due formati da chi giocava e chi vedeva la partita seduto nelle tribunette a bordo campo. Il terzo si trovava sulle tribune, a distanza chilometrica dal campo e la partita più che altro se l’immaginava. Anche perché ai tempi di tabelloni elettronici che fornissero immagini e replay, non se ne parlava proprio. Non esistevano nemmeno internet o trasmissioni via satellite e quando nel settembre del 1981, per sfidare l’Olimpia, sbarcò al palazzone una selezione NBA capitanata dal Doctor J, al secolo Julius Erving, l’effetto fu simile a quello dello sbarco dei marziani. Ed io non dimenticherò mai un suo terzo tempo, iniziato quasi da metà campo e terminato a canestro. Mi venne subito in mente una definizione di Aldo Giordani, storico commentatore e divulgatore televisivo della pallacanestro. Il basket è atletica giocata. Ebbene, io avevo appena visto il nuovo record mondiale del salto triplo. Con pallone.

 

L’atletica nazionale

Nel 1976, 1977, 1978 e 1980 il palasport ruppe il monopolio di Genova, ospitando i campionati nazionali indoor. A questo proposito abbiamo brevemente intervistato un protagonista di quei tempi, oltre che fruitore della struttura. E’ Franco Ambrosioni, più volte azzurro e nono assoluto alla maratona di New York del 1978: “Ai tempi l’attività indoor non esisteva. In occasione delle mie trasferte con la Nazionale era brutto vedere come invece in Europa gli impianti, anche molto belli, non mancassero. Prima del palasport noi correvamo indoor giusto un giorno all’anno, quando si andava a Genova per i campionati Italiani. Mi ricordo che c’era una pista in legno non bellissima e molto rumorosa. Invece quella di San Siro era un gioiello. Si correva benissimo e per noi corridori di lunga lena era fantastico potersi allenare anche lì e vedere come i risultati del nostro lavoro “organico”, venissero “trasformati” su quell’anello. I 3000 metri erano una distanza troppo corta per me, ma correre vicino a casa e davanti a chi mi conosceva fu un grosso incentivo. Agli Italiani del 1977 vinse Gerbi, ma in quella combattutissima finale a venti, io riuscì a conquistare il terzo posto con una super volata. Ricordo ancora il tempo: 8’12”.”

 

L’atletica internazionale

Tra le date storiche dell’atletica indoor milanese vanno senza dubbio menzionate l’11 ed il 12 marzo 1978, quando per la prima volta in Italia vennero ospitati i campionati europei.

Ai tempi il programma delle gare al coperto non era ricco come al giorno d’oggi. I 200 metri non erano previsti e quindi fu chiesto a Pietro Mennea di regalarci un oro sui 400 metri, dove in 46”51 prevalse di soli 4 centesimi contro il polacco Podlas che anche grazie a qualche scorrettezza gli diede del filo da torcere. L’altro successo arrivò da Sara Simeoni che saltò 1.94 m. L’argento della Bottiglieri sui 400 ed il bronzo di Buttari nei 60 ostacoli completarono il nostro medagliere, spingendo l’Italia al quarto posto, dietro soltanto a Germania Est, URSS e Finlandia.

Questa edizione sarà inoltre ricordata per il cosiddetto “volo di Volodja”. Il russo Vladimir Yaschenko compì qui la sua impresa. Saltando 2.35 conquistò l’oro, il primato continentale e l’imbattuto record mondiale con tecnica ventrale. Fu l’ultimo acuto di una giovane promessa la cui esistenza, condizionata dalla dipendenza dall’alcool e dagli infortuni,  fu molto breve.

Il 6 ed il 7 Marzo del 1982 Milano concesse il bis, con la XIII^ edizione dei campionati continentali al coperto. Cambio degli interpreti in casa Italia, ma conferma al quarto posto nel medagliere, grazie alla doppietta di Maurizio Damilano e Mattioli sui 5 km di marcia, l’argento di Cova sui 3000 in 7’54”12, i bronzi di Evangelisti nel lungo e Di Pace sui 200 metri in campo maschile. Al femminile furono decisive le nostre mezzofondiste. La Dorio vinse i 1500 in 4’04”01. Agnese Possamai, che si esaltava sulle curve del palasport e fece incetta anche di titoli italiani al coperto su questa distanza, trionfò nei 3000 metri col tempo di 8’53”77.

Tra i tanti meeting è giusto ricordare anche ciò che avvenne il 24 febbraio 1977, con la miglior prestazione mondiale di Carlo Grippo negli 800 metri: 1’46”37. Il palasport fece ancora in tempo ad ospitare un paio di volte Bubka. Il re dell’asta aveva già inaugurato la spettacolare e proficua politica del miglioramento centimetro dopo centimetro. Nel febbraio del 1984 fu la volta di quota 5.82 metri.

Nel prossimo articolo parleremo delle cause del crollo, che fine fece la pista di San Siro e le prospettive future in materia d’impianti per l’atletica al coperto. (fine seconda puntata)

Mercoledì, 17 Gennaio 2018 09:47

Storia del Palasport di San Siro: 1 - La genesi

La genesi, i fasti, il crollo, la mancata ricostruzione e le prospettive future

Prima puntata

 

Premessa

Il 17 gennaio 1985 crollava il Palasport di San Siro che era diventata la casa dei milanesi per molti sport indoor, atletica compresa. A trentatré anni esatti di distanza non è stato ricostruito. Oggi cominciamo una serie di articoli che con cadenza settimanale vogliono raccontare le ragioni per i quali fu edificato e le sue caratteristiche per i diversi sport ed eventi che ha ospitato. Seguirà una carrellata sui suoi otto anni di attività, costellata da eventi importanti. Descriveremo le cause del crollo e la mancata ricostruzione. Vedremo anche come, nel frattempo, si sono riorganizzati i vari sport ed i promotori di altri eventi. Anche qual è stata l’unica Federazione sportiva che dopo il crollo non ha rimediato ed è restata col cerino acceso. Si, avete indovinato. E’ la FIDAL. Ma non vincete nulla: la domanda era troppo facile.

 

Ringraziamenti e fonti consultate

Prima d’iniziare vorrei ringraziare Mauro Gurioli che con il suo articolo pubblicato sul sito www.museodelbasket-milano.it/ mi ha dato lo spunto per questa iniziativa. Partendo dalla sua scrupolosa ricerca ho integrato la stessa con altre fonti. Quindi ciò che leggerete si baserà principalmente su:

  • il precitato documento;
  • l’archivio del Corriere della Sera;
  • articoli scritti dal progettista, l’Ing. Giorgio Romaro;
  • pezzi pubblicati dai siti FIDAL Roma e Milano;
  • alcune interviste con i protagonisti del tempo.

Tutto questo verrà integrato dai ricordi di chi Vi scrive, che è stato spettatore al Palazzone in molte occasioni. A questo punto non mi resta che augurarVi una buona lettura.

 

La genesi

A Milano negli anni cinquanta la disponibilità d’impianti sportivi coperti di grandi dimensioni si limitava al palazzo dello sport ubicato nel recinto adibito ai padiglioni della vecchia fiera campionaria. Nato nel 1933, era stato realizzato con criteri ottocenteschi: una grande platea a pianta ellittica circondata non da tribune, così come intese al giorno d’oggi, bensì da una serie ininterrotta di palchi, disposti in maniera simile a quelli dei teatri dell’epoca. Il montaggio e smontaggio delle tribune era laborioso ed antieconomico. Salvo nelle giornate di gara, il Palafiera, successivamente chiamato così per distinguerlo da Palalido e Palazzone di San Siro, non veniva adeguatamente riscaldato, come mi ricordava Sandro Gamba, giocatore e poi allenatore delle mitiche scarpette rosse del Simmenthal, l’attuale Pallacanestro Olimpia. Faceva un freddo cane, ma per il basket era già un passo avanti rispetto al campo all’aperto di via Washington, oppure alla palestra Forza e Coraggio di via Gallura. Bella, ma con poca tribuna. Qualche volta si ricorreva al palazzo del ghiaccio di via Piranesi, riadattato per l’occasione. Tuttavia si trattava di un costoso e faticoso palliativo.

Fu così che il Comune decise di costruire finalmente una struttura flessibile ed adatta ad alcuni sport indoor, quali il basket, il pugilato, il volley ed il tennis. Con l’inaugurazione del Palalido, alla fine del 1960, ebbe praticamente termine ogni attività sportiva al Palafiera, ad eccezione del ciclismo su pista che anzi godette di grande popolarità grazie alle 6 giorni. L’impianto però non soddisfaceva né gli organizzatori né il pubblico, per cui Adriano Rodoni, vicepresidente del CONI, oltre che presidente della Federazione Ciclistica, cercò in tutti i modi di convincere il Comune di Milano a  realizzare un grande palazzo dello Sport. Ogni tentativo fu vano perché il Comune si era già molto indebitato per realizzare la linea 1 della metropolitana. Rodoni tuttavia non mollò la presa. Ai tempi era una potenza. Per chi non lo conoscesse, si può paragonarlo a Primo Nebiolo, che governò l’atletica mondiale come presidente IAAF dal 1981 fino alla sua morte nel 1999. Analogamente il milanese Rodoni fu presidente UCI, l’Unione Ciclistica Internazionale dal 1957 al 1981. Quindi fallita la strada con il Comune, pensò fosse possibile utilizzare i fondi CONI provenienti da Lotto e Totocalcio che ai tempi convogliavano grosse risorse essendo in pratica i soli giochi d’azzardo consentiti.

E l’atletica? In questo frangente svolge un ruolo marginale. L’attività al coperto praticamente ancora non esiste. Quindi non c’è una vera domanda. Per il primo campionato italiano indoor bisognerà aspettare il 1970, quindi per usare un paragone ciclistico, resta a ruota, in scia a Rodoni, ovviamente ben lieta di ricevere questo possibile nuovo quanto gradito regalo.

 

La costruzione

E’ il 1965 quando il CONI accetta la proposta. Tre i fattori decisivi: Rodoni, la popolarità del ciclismo ed il fatto che Roma avesse avuto in dono, grazie alle Olimpiadi, una serie impressionante di impianti sportivi. Secondo i desiderata del Comitato Olimpico, l’impianto avrebbe dovuto sorgere in zona est del capoluogo lombardo, ma l’amministrazione comunale spinse per farlo vicino allo stadio calcistico in quanto la zona era l’unica ad essere già attrezzata per accogliere un numero considerevole di sportivi grazie ai mezzi pubblici ed agli ampi parcheggi. I punti qualificanti dell’accordo tra CONI e Comune prevedevano che:

  • il CONI avrebbe realizzato il Palazzo e ne avrebbe anche garantito gestione, funzionamento ed operatività, senza alcun onere per il Comune;
  • Dopo 29 anni il Comune avrebbe rilevato la struttura dal CONI ad un prezzo prefissato e pari alla metà del budget stabilito per la costruzione; era data al CONI la possibilità di prorogare la proprietà per ulteriori 29 anni, ma al termine di quest’ultimo periodo la proprietà sarebbe passata gratuitamente al Comune;
  • Il CONI, nell’ottica di favorire non solo lo sport di vertice, avrebbe totalmente finanziato la creazione di alcuni centri sportivi di base nelle periferie cittadine, sempre senza alcun onere per il Comune.

L’arredo interno prevedeva una pista ciclistica di lunghezza omologata, una pista di atletica, oltre alla possibilità di installare attrezzature idonee per ogni sport indoor, inclusa una eventuale superficie ghiacciata. Nel mesi di maggio del 1969 fu finalmente aperta la gara per la designazione dell’impresa costruttrice.  In dicembre dello stesso anno la Commissione proclamò vincitrice la ditta CONDOTTE D’ACQUA con un progetto che prevedeva una spesa complessiva pari a 2,7 miliardi di lire, equivalenti a 1,4 milioni di euro, che con la rivalutazione, ad oggi corrisponderebbero a circa 25 milioni di euro. Il  24 febbraio 1970 veniva posta la prima pietra del Palasport e nel contempo venivano iniziati lavori per le strutture sportive di base: il centro sportivo al Forlanini e sei piscine da realizzare nei quartieri Gorla, Bruzzano, Sant’Ambrogio, Gallaratese, Lorenteggio e Gratosoglio. Tra ritardi, interruzioni e modifiche in itinere al progetto iniziale, servirono 6 anni per terminare l’opera. Il bilancio finale parla di oltre 1.000.000 di ore di lavoro, 27.000 metri cubi di calcestruzzo, 4.000 tonnellate di acciaio, 6.000 metri quadrati di vetro. Il costo finale fu triplo rispetto al budget: circa nove miliardi di lire. Prima dell’apertura, il 10 gennaio 1976  si svolse un meeting non ufficiale di atletica, a porte chiuse, a cui partecipò anche Pietro Mennea. Sabato 31 gennaio 1976, in diretta televisiva, con la conduzione di Mike Bongiorno, il Palasport venne ufficialmente inaugurato. Fu un grande show, con musica, cabaret oltre a molti ospiti sportivi tra cui i ciclisti Alfredo Binda, Vittorio Adorni, gli schermidori Dario ed Edo Mangiarotti, il pugile Duilio Loi.  (fine prima puntata) 

 

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Lunedì, 01 Gennaio 2018 21:31

Milano – 9° KiloMetrObliquO

Come capita a Natale, anche per il primo giorno dell’anno molti gruppi sportivi raccolgono i propri atleti per un brindisi augurale e per ripartire di corsa. Lo scenario abituale è quello dei luoghi di allenamento, perché il vero podista non lo tieni mai fermo. Questa tradizione è rispettata anche dalla società più numerosa tra i master meneghini, ovvero i Road Runner che da quasi un decennio si sono inventati, insieme al brindisi, questa gara non gara, dal Campo Sportivo XXV Aprile, fino in cima all’attigua montagnetta di San Siro.

La partecipazione è libera e non mancano atleti di altri club, aspetto che fa montare i numeri in tripla cifra, anche se quest’anno, complice la pioggia della vigilia, si è registrata qualche assenza. Il parco dei partenti è molto eterogeneo, dal signore che non manca mai e fa una semplice passeggiata, alla runner con il cane, alla neo mamma con creatura fasciata in grembo, fino a corridori di tutte le cilindrate, compreso qualcuno abituato a ben altri podi. Il percorso si snoda tutto nel bel parco di questa collinetta, nata per caso alla fine della seconda guerra mondiale. Vennero infatti accumulate in questa zona, allora di periferia, tutte le macerie provocate dai bombardamenti. Il Montestella deve il suo nome alla consorte dell’Ingegner Piero Bottoni, che incaricato dal Comune, coordinò i lavori di realizzazione di questa oasi verde che si estende per ben 370 ettari.

Il KiloMetrObliquO, l’alternanza maiuscole/minuscole non è casuale, va corso tutto d’un fiato. Si parte poco dopo i panettoni che bloccano il traffico vicino al parcheggio, per una gara a cronometro individuale lunga circa un chilometro. Il tracciato, tutto in sterrato, alterna pendenze impegnative a tratti in falsopiano dove fare velocità, o molto più semplicemente prendere fiato. Il traguardo è posto in vetta, se ci consentite di usare questo termine per un’ascesa di una cinquantina di metri scarsi. Fair play imperante e massima semplicità, come simpaticamente riportato sul sito del club: “il KiloMetrObliquO è gratuito ed aperto a tutti, non necessita di iscrizioni, pettorali, chip e quant'altro; ognuno è responsabile di se stesso… i tempi verranno rilevati col consolidato PTS (Personal Timing System) ovvero ognuno si piglia il proprio tempo (dunque portatevi un cronometro) e all'arrivo lo comunica all'addetto (se ci sarà) o lo memorizza per consentire, comunque, di stilare una classifica ufficiale”.

In realtà tutto è ben organizzato. Le partenze sono gestite e scaglionate ogni 10 secondi, il percorso è chiaramente indicato e ritornati al campo base non manca un ristoro finale. Ringraziamo Lorenzo Ravelli per la foto e Riccardo Ghidotti, anima di questo evento, che ci ha fornito i nomi dei due vincitori: Chiara Quartesan in 4’43” e Cristiano Marchese in 4’05”.

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Torniamo oggi parlare dell’Alpin Cup. Lo facciamo a distanza di circa una settimana dal nostro articolo (clicca qui), in cui festeggiavamo la prestazione di Samantha Vezio, terza assoluta, con un miglioramento di 47 minuti sul precedente personale in mezza maratona.


Ecco il testo del Comunicato Ufficiale apparso sul sito degli Urban Runners, il gruppo sportivo dell’atleta:“La socia Urbanrunners Samantha Vezio, terza di categoria all’Alpin Cup, con un risultato cronometrico che ha lasciato tutti sorpresi, ha riconosciuto davanti al presidente del Comitato Lombardo della Federazione Italiana di Atletica Leggera Giovanni Mauri e al presidente degli Urbanrunners Gianluca Ricchiuti che, nonostante nessun giudice presente sul percorso lo abbia rilevato, il suo tempo è frutto di un’errata interpretazione del percorso. Samantha Vezio si impegna a consegnare il premio ricevuto alla quarta classificata.”

A titolo di cronaca segnaliamo il nome della quarta classificata, che ora sale sul podio. Si tratta di ILARIA LANZANI del P.B.M. BOVISIO MASCIAGO a cui vanno i complimenti di tutta la Redazione. 

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Il Guinness dei Primati non ha ancora omologato il record, ma a noi poco importa. Resta il fatto che domenica scorsa Irene Sewell ha percorso una maratona tutta sui tacchi. Teatro dell’impresa Chattanooga, una cittadina del Tennessee nota ai più solo per la famosa canzone sul treno, dall’onomatopeico titolo originale “Chattanooga Choo Choo”.  

Fatica completata in 7h27’53” per la ventisettenne della Virginia, che per 42 chilometri abbondanti ha indossato dei tacchi a spillo alti circa 7 centimetri. Ex ballerina professionista ed atleta che ha già completato diversi Half-Ironman e mezze maratone, la Sewell si è allenata per mesi alternando, come suggerito dal podologo, scarpe da running e quelle con stiletto.

 Lasciando ad altri i commenti su quanto avvenuto alla Seven Bridges Marathon, permetteteci soltanto di constatare che si è trattato di una lunghissima, quanto scomoda passeggiata. Infatti la velocità media risulta essere pari a 5,65 km/h, ovvero quella che si può ottenere senza correre un minuto. E nemmeno passeggiare troppo velocemente. Quindi etichettatela come volete, ma per favore non parlate di corsa.

 Il problema di fondo è che di fronte alle necessità di fare più business, ormai da tempo gli organizzatori delle maratone hanno dilatato a dismisura i tempi limite pur di ampliare il bacino d’utenza. Un tempo dopo 4 ore si smontava il gonfiabile, adesso a quell’ora deve ancora arrivare il grosso delle truppe. La deriva che ne è seguita è stata il fiorire di partecipazioni quantomeno curiose, tra costumi indossati, strane calzature, palloni da basket e quant’altro.

 Sarebbe ora che anche in Italia si decidesse di dividere chi partecipa seriamente, senza bisogno di essere un campione, da chi pensa di partecipare ad una scampagnata più che ad un evento sportivo. E che quindi non trova nemmeno così sbagliato tagliare o vestirsi bizzarramente o scambiare chip e pettorale con un amico a metà percorso.

 Prima i competitivi, regolarmente tesserati e dopo il carnevale. Con pettorali diversi e rigorosamente fuori classifica. Ma non chiamatelo sport, non chiamatela corsa.

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