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Rodolfo Lollini

Rodolfo Lollini

Mercoledì, 17 Gennaio 2018 09:47

Storia del Palasport di San Siro: 1 - La genesi

La genesi, i fasti, il crollo, la mancata ricostruzione e le prospettive future

Prima puntata

 

Premessa

Il 17 gennaio 1985 crollava il Palasport di San Siro che era diventata la casa dei milanesi per molti sport indoor, atletica compresa. A trentatré anni esatti di distanza non è stato ricostruito. Oggi cominciamo una serie di articoli che con cadenza settimanale vogliono raccontare le ragioni per i quali fu edificato e le sue caratteristiche per i diversi sport ed eventi che ha ospitato. Seguirà una carrellata sui suoi otto anni di attività, costellata da eventi importanti. Descriveremo le cause del crollo e la mancata ricostruzione. Vedremo anche come, nel frattempo, si sono riorganizzati i vari sport ed i promotori di altri eventi. Anche qual è stata l’unica Federazione sportiva che dopo il crollo non ha rimediato ed è restata col cerino acceso. Si, avete indovinato. E’ la FIDAL. Ma non vincete nulla: la domanda era troppo facile.

 

Ringraziamenti e fonti consultate

Prima d’iniziare vorrei ringraziare Mauro Gurioli che con il suo articolo pubblicato sul sito www.museodelbasket-milano.it/ mi ha dato lo spunto per questa iniziativa. Partendo dalla sua scrupolosa ricerca ho integrato la stessa con altre fonti. Quindi ciò che leggerete si baserà principalmente su:

  • il precitato documento;
  • l’archivio del Corriere della Sera;
  • articoli scritti dal progettista, l’Ing. Giorgio Romaro;
  • pezzi pubblicati dai siti FIDAL Roma e Milano;
  • alcune interviste con i protagonisti del tempo.

Tutto questo verrà integrato dai ricordi di chi Vi scrive, che è stato spettatore al Palazzone in molte occasioni. A questo punto non mi resta che augurarVi una buona lettura.

 

La genesi

A Milano negli anni cinquanta la disponibilità d’impianti sportivi coperti di grandi dimensioni si limitava al palazzo dello sport ubicato nel recinto adibito ai padiglioni della vecchia fiera campionaria. Nato nel 1933, era stato realizzato con criteri ottocenteschi: una grande platea a pianta ellittica circondata non da tribune, così come intese al giorno d’oggi, bensì da una serie ininterrotta di palchi, disposti in maniera simile a quelli dei teatri dell’epoca. Il montaggio e smontaggio delle tribune era laborioso ed antieconomico. Salvo nelle giornate di gara, il Palafiera, successivamente chiamato così per distinguerlo da Palalido e Palazzone di San Siro, non veniva adeguatamente riscaldato, come mi ricordava Sandro Gamba, giocatore e poi allenatore delle mitiche scarpette rosse del Simmenthal, l’attuale Pallacanestro Olimpia. Faceva un freddo cane, ma per il basket era già un passo avanti rispetto al campo all’aperto di via Washington, oppure alla palestra Forza e Coraggio di via Gallura. Bella, ma con poca tribuna. Qualche volta si ricorreva al palazzo del ghiaccio di via Piranesi, riadattato per l’occasione. Tuttavia si trattava di un costoso e faticoso palliativo.

Fu così che il Comune decise di costruire finalmente una struttura flessibile ed adatta ad alcuni sport indoor, quali il basket, il pugilato, il volley ed il tennis. Con l’inaugurazione del Palalido, alla fine del 1960, ebbe praticamente termine ogni attività sportiva al Palafiera, ad eccezione del ciclismo su pista che anzi godette di grande popolarità grazie alle 6 giorni. L’impianto però non soddisfaceva né gli organizzatori né il pubblico, per cui Adriano Rodoni, vicepresidente del CONI, oltre che presidente della Federazione Ciclistica, cercò in tutti i modi di convincere il Comune di Milano a  realizzare un grande palazzo dello Sport. Ogni tentativo fu vano perché il Comune si era già molto indebitato per realizzare la linea 1 della metropolitana. Rodoni tuttavia non mollò la presa. Ai tempi era una potenza. Per chi non lo conoscesse, si può paragonarlo a Primo Nebiolo, che governò l’atletica mondiale come presidente IAAF dal 1981 fino alla sua morte nel 1999. Analogamente il milanese Rodoni fu presidente UCI, l’Unione Ciclistica Internazionale dal 1957 al 1981. Quindi fallita la strada con il Comune, pensò fosse possibile utilizzare i fondi CONI provenienti da Lotto e Totocalcio che ai tempi convogliavano grosse risorse essendo in pratica i soli giochi d’azzardo consentiti.

E l’atletica? In questo frangente svolge un ruolo marginale. L’attività al coperto praticamente ancora non esiste. Quindi non c’è una vera domanda. Per il primo campionato italiano indoor bisognerà aspettare il 1970, quindi per usare un paragone ciclistico, resta a ruota, in scia a Rodoni, ovviamente ben lieta di ricevere questo possibile nuovo quanto gradito regalo.

 

La costruzione

E’ il 1965 quando il CONI accetta la proposta. Tre i fattori decisivi: Rodoni, la popolarità del ciclismo ed il fatto che Roma avesse avuto in dono, grazie alle Olimpiadi, una serie impressionante di impianti sportivi. Secondo i desiderata del Comitato Olimpico, l’impianto avrebbe dovuto sorgere in zona est del capoluogo lombardo, ma l’amministrazione comunale spinse per farlo vicino allo stadio calcistico in quanto la zona era l’unica ad essere già attrezzata per accogliere un numero considerevole di sportivi grazie ai mezzi pubblici ed agli ampi parcheggi. I punti qualificanti dell’accordo tra CONI e Comune prevedevano che:

  • il CONI avrebbe realizzato il Palazzo e ne avrebbe anche garantito gestione, funzionamento ed operatività, senza alcun onere per il Comune;
  • Dopo 29 anni il Comune avrebbe rilevato la struttura dal CONI ad un prezzo prefissato e pari alla metà del budget stabilito per la costruzione; era data al CONI la possibilità di prorogare la proprietà per ulteriori 29 anni, ma al termine di quest’ultimo periodo la proprietà sarebbe passata gratuitamente al Comune;
  • Il CONI, nell’ottica di favorire non solo lo sport di vertice, avrebbe totalmente finanziato la creazione di alcuni centri sportivi di base nelle periferie cittadine, sempre senza alcun onere per il Comune.

L’arredo interno prevedeva una pista ciclistica di lunghezza omologata, una pista di atletica, oltre alla possibilità di installare attrezzature idonee per ogni sport indoor, inclusa una eventuale superficie ghiacciata. Nel mesi di maggio del 1969 fu finalmente aperta la gara per la designazione dell’impresa costruttrice.  In dicembre dello stesso anno la Commissione proclamò vincitrice la ditta CONDOTTE D’ACQUA con un progetto che prevedeva una spesa complessiva pari a 2,7 miliardi di lire, equivalenti a 1,4 milioni di euro, che con la rivalutazione, ad oggi corrisponderebbero a circa 25 milioni di euro. Il  24 febbraio 1970 veniva posta la prima pietra del Palasport e nel contempo venivano iniziati lavori per le strutture sportive di base: il centro sportivo al Forlanini e sei piscine da realizzare nei quartieri Gorla, Bruzzano, Sant’Ambrogio, Gallaratese, Lorenteggio e Gratosoglio. Tra ritardi, interruzioni e modifiche in itinere al progetto iniziale, servirono 6 anni per terminare l’opera. Il bilancio finale parla di oltre 1.000.000 di ore di lavoro, 27.000 metri cubi di calcestruzzo, 4.000 tonnellate di acciaio, 6.000 metri quadrati di vetro. Il costo finale fu triplo rispetto al budget: circa nove miliardi di lire. Prima dell’apertura, il 10 gennaio 1976  si svolse un meeting non ufficiale di atletica, a porte chiuse, a cui partecipò anche Pietro Mennea. Sabato 31 gennaio 1976, in diretta televisiva, con la conduzione di Mike Bongiorno, il Palasport venne ufficialmente inaugurato. Fu un grande show, con musica, cabaret oltre a molti ospiti sportivi tra cui i ciclisti Alfredo Binda, Vittorio Adorni, gli schermidori Dario ed Edo Mangiarotti, il pugile Duilio Loi.  (fine prima puntata) 

 

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Lunedì, 01 Gennaio 2018 21:31

Milano – 9° KiloMetrObliquO

Come capita a Natale, anche per il primo giorno dell’anno molti gruppi sportivi raccolgono i propri atleti per un brindisi augurale e per ripartire di corsa. Lo scenario abituale è quello dei luoghi di allenamento, perché il vero podista non lo tieni mai fermo. Questa tradizione è rispettata anche dalla società più numerosa tra i master meneghini, ovvero i Road Runner che da quasi un decennio si sono inventati, insieme al brindisi, questa gara non gara, dal Campo Sportivo XXV Aprile, fino in cima all’attigua montagnetta di San Siro.

La partecipazione è libera e non mancano atleti di altri club, aspetto che fa montare i numeri in tripla cifra, anche se quest’anno, complice la pioggia della vigilia, si è registrata qualche assenza. Il parco dei partenti è molto eterogeneo, dal signore che non manca mai e fa una semplice passeggiata, alla runner con il cane, alla neo mamma con creatura fasciata in grembo, fino a corridori di tutte le cilindrate, compreso qualcuno abituato a ben altri podi. Il percorso si snoda tutto nel bel parco di questa collinetta, nata per caso alla fine della seconda guerra mondiale. Vennero infatti accumulate in questa zona, allora di periferia, tutte le macerie provocate dai bombardamenti. Il Montestella deve il suo nome alla consorte dell’Ingegner Piero Bottoni, che incaricato dal Comune, coordinò i lavori di realizzazione di questa oasi verde che si estende per ben 370 ettari.

Il KiloMetrObliquO, l’alternanza maiuscole/minuscole non è casuale, va corso tutto d’un fiato. Si parte poco dopo i panettoni che bloccano il traffico vicino al parcheggio, per una gara a cronometro individuale lunga circa un chilometro. Il tracciato, tutto in sterrato, alterna pendenze impegnative a tratti in falsopiano dove fare velocità, o molto più semplicemente prendere fiato. Il traguardo è posto in vetta, se ci consentite di usare questo termine per un’ascesa di una cinquantina di metri scarsi. Fair play imperante e massima semplicità, come simpaticamente riportato sul sito del club: “il KiloMetrObliquO è gratuito ed aperto a tutti, non necessita di iscrizioni, pettorali, chip e quant'altro; ognuno è responsabile di se stesso… i tempi verranno rilevati col consolidato PTS (Personal Timing System) ovvero ognuno si piglia il proprio tempo (dunque portatevi un cronometro) e all'arrivo lo comunica all'addetto (se ci sarà) o lo memorizza per consentire, comunque, di stilare una classifica ufficiale”.

In realtà tutto è ben organizzato. Le partenze sono gestite e scaglionate ogni 10 secondi, il percorso è chiaramente indicato e ritornati al campo base non manca un ristoro finale. Ringraziamo Lorenzo Ravelli per la foto e Riccardo Ghidotti, anima di questo evento, che ci ha fornito i nomi dei due vincitori: Chiara Quartesan in 4’43” e Cristiano Marchese in 4’05”.

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Torniamo oggi parlare dell’Alpin Cup. Lo facciamo a distanza di circa una settimana dal nostro articolo (clicca qui), in cui festeggiavamo la prestazione di Samantha Vezio, terza assoluta, con un miglioramento di 47 minuti sul precedente personale in mezza maratona.


Ecco il testo del Comunicato Ufficiale apparso sul sito degli Urban Runners, il gruppo sportivo dell’atleta:“La socia Urbanrunners Samantha Vezio, terza di categoria all’Alpin Cup, con un risultato cronometrico che ha lasciato tutti sorpresi, ha riconosciuto davanti al presidente del Comitato Lombardo della Federazione Italiana di Atletica Leggera Giovanni Mauri e al presidente degli Urbanrunners Gianluca Ricchiuti che, nonostante nessun giudice presente sul percorso lo abbia rilevato, il suo tempo è frutto di un’errata interpretazione del percorso. Samantha Vezio si impegna a consegnare il premio ricevuto alla quarta classificata.”

A titolo di cronaca segnaliamo il nome della quarta classificata, che ora sale sul podio. Si tratta di ILARIA LANZANI del P.B.M. BOVISIO MASCIAGO a cui vanno i complimenti di tutta la Redazione. 

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Il Guinness dei Primati non ha ancora omologato il record, ma a noi poco importa. Resta il fatto che domenica scorsa Irene Sewell ha percorso una maratona tutta sui tacchi. Teatro dell’impresa Chattanooga, una cittadina del Tennessee nota ai più solo per la famosa canzone sul treno, dall’onomatopeico titolo originale “Chattanooga Choo Choo”.  

Fatica completata in 7h27’53” per la ventisettenne della Virginia, che per 42 chilometri abbondanti ha indossato dei tacchi a spillo alti circa 7 centimetri. Ex ballerina professionista ed atleta che ha già completato diversi Half-Ironman e mezze maratone, la Sewell si è allenata per mesi alternando, come suggerito dal podologo, scarpe da running e quelle con stiletto.

 Lasciando ad altri i commenti su quanto avvenuto alla Seven Bridges Marathon, permetteteci soltanto di constatare che si è trattato di una lunghissima, quanto scomoda passeggiata. Infatti la velocità media risulta essere pari a 5,65 km/h, ovvero quella che si può ottenere senza correre un minuto. E nemmeno passeggiare troppo velocemente. Quindi etichettatela come volete, ma per favore non parlate di corsa.

 Il problema di fondo è che di fronte alle necessità di fare più business, ormai da tempo gli organizzatori delle maratone hanno dilatato a dismisura i tempi limite pur di ampliare il bacino d’utenza. Un tempo dopo 4 ore si smontava il gonfiabile, adesso a quell’ora deve ancora arrivare il grosso delle truppe. La deriva che ne è seguita è stata il fiorire di partecipazioni quantomeno curiose, tra costumi indossati, strane calzature, palloni da basket e quant’altro.

 Sarebbe ora che anche in Italia si decidesse di dividere chi partecipa seriamente, senza bisogno di essere un campione, da chi pensa di partecipare ad una scampagnata più che ad un evento sportivo. E che quindi non trova nemmeno così sbagliato tagliare o vestirsi bizzarramente o scambiare chip e pettorale con un amico a metà percorso.

 Prima i competitivi, regolarmente tesserati e dopo il carnevale. Con pettorali diversi e rigorosamente fuori classifica. Ma non chiamatelo sport, non chiamatela corsa.

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