Al fine di alimentare il dibattito civile e sportivo per un rapido ritorno alla normalità, alcuni interventi relativi al mio precedente articolo su queste pagine http://podisti.net/index.php/in-evidenza/item/6186-provocazione-se-riprendessimo-le-corse-entro-giugno.html mi sono sembrati piuttosto interessanti. In particolare in merito alla questione, da sempre molto critica in Italia, legata all’assunzione di responsabilità. Come correttamente hanno fatto notare alcuni organizzatori di corse podistiche, l’idea di poter incappare in una sanzione penale attinente alla complessa vicenda del Covid-19 costituisce una remora di non poco conto per questi soggetti, ammesso e non concesso che, come auspico da tempo, venga decretato lo sblocco generale delle attività sportive in cui risulta inevitabile il cosiddetto assembramento.
Sebbene tutto porti a ritenere che il temibile virus si sia fortemente depotenziato, così come sostengono da tempo i clinici di tutta Italia, l’idea che qualcuno possa risultare positivo dopo aver partecipato ad una garetta provinciale, nel Paese dei protocolli e dell’eterna quanto vana rincorsa del rischio zero, sembra letteralmente terrorizzare i medesimi organizzatori. Proprio in merito all’andamento di una emergenza che non pare più tale da tempo, è uscito un recentissimo studio di laboratorio (https://liguriaoggi.it/2020/06/09/coronavirus-bassetti-non-ce-stato-il-temuto-aumento-dei-casi-ora-rientro-alla-normalita/) realizzato in Gran Bretagna e divulgato in Italia da Matteo Bassetti, infettivologo che opera in prima linea nel principale ospedale di Genova, in cui si dimostrerebbe che il Covid-19 sarebbe mutato ben 189 volte, raggiungendo un adattamento tale da non rappresentare più un grave problema per l’ospite umano. In un altro studio il professor Arnaldo Caruso di Brescia avrebbe valutato i ceppi attuali infinitamente meno aggressivi rispetto a quelli in circolazione nel mese di marzo. D’altro canto i riscontri indiretti dei numeri, con il crollo dei ricoveri che si registra da parecchie settimane, paiono andare tutti in questa direzione più che rassicurante.
Malgrado ciò, proprio nel Paese dei timbri e della ceralacca, non è peregrino per un organizzatore di kermesse podistiche fasciarsi la testa di fronte alla possibilità, oramai remota, di ritrovarsi sotto la spada di Damocle di uno o più positivi al Coronavirus nel post-gara, anche se in assenza di alcuna seria sintomatologia.
In questo senso mi sembra piuttosto istruttivo segnalare di nuovo che, a seguito degli incidenti i quali causarono un morto a Torino, durante la finale di Champions League del 3 giugno 2017, anche chi mette in piedi una manifestazione pubblica come una gara podistica, magari con 100 partecipanti e qualche appassionato disseminato lungo percorso, è costretto ad elaborare un piano della sicurezza, con tanto di responsabile designato. E tutto ciò proprio nella (a mio avviso) insensata ricerca del citato rischio zero, che mai potrà essere ottenuto nella nostra esistenza di comuni mortali.
Sarebbe invece importante, venendo alla parte construens del mio modesto discorso, puntare su un altro elemento: il senso della responsabilità individuale, con tutto quello che ne consegue. Esattamente quello che vigeva in Italia quando ho iniziato a gareggiare su strada nel lontano 1975, in cui per tesserarsi ad una società sportiva erano richieste solo due foto e si poteva partecipare alla Roma-Ostia anche come atleta libero. Una condizione che, a quanto testimoniano molti amici che vivono e corrono all’estero, caratterizza alcuni grandi Paesi europei, ad esempio la Germania, nei quali è possibile gareggiare firmando una semplice ma civile liberatoria.
Ebbene, se nel regno della burocrazia anche sportiva risulta utopistico il ritorno ad un mondo senza certificati medici, convenzioni con la Fidal e runcard, nondimeno nei riguardi di un virus di origine animale che, al pari dei suoi cugini, sta creando un rapido coadattamento che sembra andrà a sfociare, al peggio, in un banale raffreddore, la misura di consentire l’iscrizione alle gare future attraverso una assunzione individuale di responsabilità non mi sembrerebbe affatto una eresia. D’altro canto, la partecipazione alle competizioni non è ovviamente un obbligo e chi lo fa, pur nell’ambito di una cornice di requisiti che spettano ai soggetti che meritoriamente le organizzano, è corretto che se ne assuma appieno la responsabilità.
Un principio di civiltà quest’ultimo il quale, virus o non virus, dovrebbe costituire anche nello sport amatoriale un prerequisito ineliminabile.