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Feb 16, 2018 Stefano Severoni 5586volte

Matteo Simone racconta il Kenia e i keniani

Keniani in corsa Keniani in corsa Matteo Simone

Chiediamo a Matteo Simone (ben noto ai lettori di queste pagine) commenti sulla sua breve esperienza in Kenia nello scorso gennaio.

Com’è stata articolata la tua giornata?

La sera prima ci si organizzava per il giorno successivo, in genere appuntamento alle 6.30 con i pacer keniani per un allenamento a piccoli gruppi in base alla distanza e velocità, si correva in genere dai 12 ai 20 km, con ritmi dai più veloci e in progressioni per gli atleti più forti, mentre più lenti per me e altri, e anche alcune donne che andavamo più piano. Si tornava, stretching, colazione e poi liberi a bordo piscina oppure passeggiate varie. Era prevista merenda sia nella mattinata che nel pomeriggio. Nel pomeriggio inoltre erano previste a volte sessioni di addominali a cura di Timo Limo o Richard, molto dure e faticose: il motto di Richard era: «No pain no gain». Comunque insieme ci divertivamo anche ed erano presenti tanti campioni lì con noi. Altri pomeriggi facevamo tecnica di corsa e andature a cura di Timo Limo sulla pista in tartan di Lorna Kiplagat, oppure visite a scuole, incontri con allenatori di pomeriggio o sera, incontri e allenamenti con atleti di livello mondiali come Wilson Kipsang, che abbiamo incontrato nella palestra e ci ha chiesto se l’indomani mattina ci allenavamo insieme, e così è stato ha fatto: 5 minuti di ritardo, ma alle 6.35 si è presentato lui, che ha 2h03’13” in maratona, con un altro atleta che ha di personale in maratona 2h07’. Inoltre erano previsti allenamenti nella pista di Tambach, a 12 km di distanza dal nostro centro, una pista in terra battuta “calpestata” da tanti fenomeni keniani, e noi insieme a loro. Inoltre il fartlek del giovedì mattina: alle 9.00 si partiva tutti insieme, eravamo centinaia, ma loro erano fortissimi, variazioni di ritmo sotto i 3’ al km. Inoltre erano previste visite a ospedali, artigianato locale, altri camp di atletica poveri e meno poveri.

Cosa ti ha più interessato del popolo keniano?

Quello che più mi ha interessato e che mi è rimasto nel cuore è stato la loro semplicità e solarità, i loro sguardi, il loro contatto, i loro saluti: quando t’incontrano, ti guardano, ti salutano, ti danno la mano, è diverso da qui da noi dove tutti sono intenti, me compreso, a guardare il cellulare, si cammina senza guardare chi incrociamo, siamo soli con noi stessi. Inoltre mi ha interessato la povertà, ma una povertà umile e gentile, una non-ricchezza che non guasta, una povertà fiera. Mi hanno interessato i tanti bambini e ragazzi che incontravamo, che andavano a scuola per tanta strada e quando ti vedevano correre si univano a me, oppure quando passavo mi chiedevano: «Come stai? How are you? Habari, Jambo».

Secondo il dott. Enrico Arcelli esistono più fattori che determinano il successo keniano in atletica leggera: 1) motivazioni; 2) altura in cui vivono; 3) favorevole rapporto peso-altezza; 4) scarsa tendenza a infortunarsi; 5) elasticità muscolare; 6) stile di vita, ecc. Confermi? 

Credo che sono tutti fattori che contribuiscono alla loro performance, ma non i soli; fondamentale è il loro modo di allenarsi insieme, formano treni di allenamento, li vedi passare come mandrie, tra i tanti poi emerge il più forte, viene visto, osservato, corteggiato e portato a gareggiare nel mondo. Inoltre curano tanti aspetti, non solo la corsa, ma anche gli addominali, la palestra, la sauna, la fisioterapia, almeno quelli che se lo possono permettere. Le loro 4 regole sono: allenarsi, mangiare, dormire e poi socializzare. L’allenamento, oltre i lavori in pista, è fondamentalmente il fartlek che gli dà il ritmo di corsa, l’entusiasmo, la voglia di competere con tutto il mondo. Poi, oltre l’altezza di 2400 s.l.m., i percorsi sono molto impegnativi, sterrato su percorsi collinari, loro cercano tanti stimoli. Altro aspetto è il confrontarsi con i più forti, è lì che vanno i più forti atleti ad allenarsi e i più competenti allenatori ad allenare, più ti confronti con gli atleti del mondo e più apprendi. Inoltre il mangiare è fondamentale, i prodotti della terra sono genuini e nutrienti, la frutta ricchissima di vit. C e minerali, tanta papaya, mango, ananas, banane.

Campioni si nasce o si diventa?

Bisogna prima nascere campione e poi diventarlo, ci vogliono i geni giusti, ma non basta, non tutti coloro che hanno il corredo per diventare campioni poi riescono, c’è bisogno del contesto che ti coinvolge, che crede in te, e poi tu stesso devi essere motivato, ci devi credere, devi trovare stimoli giusti, devi essere resiliente, devi sapere aspettare il momento giusto, devi essere persistente, amichevole, saperti allenare da solo e anche con gli altri, devi saper ascoltare, e saper anche chiedere. Resilienti si nasce o si diventa? Basta respirare all’inizio, non ci vogliono tante doti, e poi devi saper seguire treni giusti, devi capire cosa apprendere dagli educatori, devi prendere e dare, devi soffrire un po’ ma non troppo, devi saper costruire la tua personalità, le tue mete e i tuoi obiettivi, avere piano B e piano C, essere amichevole, aiutare e farsi aiutare, fidarsi e affidarsi.

Ritornando a Roma ora dovrai nuovamente fare i conti con una città sporca, pavimentazione dissestata, mezzi pubblici poco efficienti, malumore generale, ecc. In Kenya era la stessa cosa?

"Purtroppo" anche in Kenya stanno arrivando dal resto del mondo ad asfaltare, e così da una parte aumenta il progresso e la velocità dei mezzi di trasporto e dall’altra parte si perde la naturalezza e la lentezza della quotidianità. Bisogna focalizzarsi sul momento presente e nel contesto dove siamo, lì è diverso quando sei lì, qui è diverso: devi coltivare il tuo orto, capire quello che puoi fare e come lo puoi fare con quello che hai a disposizione cercando di apportare migliorie nella tua vita, nelle tue amicizie senza stravolgere la tua vita, con il cuore rivolto in Kenya ma il fisico a Roma, riprendendo la bicicletta con nuove consapevolezze, incontrando gente guardandola negli occhi, con forze nuove che vengono dal cuore e dalla mente.

Melanie Joy nel suo libro Perché amiamo i cani, mangiamo i maiali e indossiamo le mucche, ha stigmatizzato l’ambiguo rapporto uomo-animali in Occidente. Lì in Africa è la stessa cosa? La gente ha il tempo di andare al circo, allo zoo, all’acquario, ove certo gli animali non vivono in condizioni naturali? Indossano piumini e pellicce, pur sempre frutto di violenza a danno di esseri senzienti?

Lì tutto ciò non esiste, non esistono circo, zoo, acquario, è bello vedere gli animali per strada, vedere gli artigiani che lavorano per strada il legname, che aggiustano attrezzi, che vendono frutta colorata e profumata, sono coperti ma di vestiti semplici e colorati.

Che tipo di alimentazione segue il keniano medio?

Più che altro cereali, verdure e frutta, poca carne, l’ugali è sempre presente (una sorta di polenta), inoltre buonissimi i centrifugati di verdura allo zenzero, buonissime le diverse patate e tanta frutta a volontà.

Tuoi prossimi impegni sportivi ed esistenziali?

Ho già fatto la Corsa di Miguel, di ritorno da Iten, e ho fatto una prestazione migliore di circa 2’ rispetto a prima di partire: andavo leggero, agile e in progressione con tanto entusiasmo. Prossimi impegni, le gare con la società La Sbarra e I Grilli Runners, e poi sto aspettando la mia 50^ maratona/ultra, mi piacerebbe fare la 6 ore della Reggia, e anche delle 12 e 24 ore, mi piacerebbe fare quella di Torino; e poi non escluderei la Nove Colli Running di 202 km; anche qualche gara in bicicletta con il Gruppo di ciclismo di Podistica Solidarietà, e non si sa mai, riprovare un Ironman se riprendo a nuotare: attualmente faccio anche Tai chi e yoga. E la cosa importante è che adesso faccio parte del team Kenya-Italia e volerò spesso in Kenya come accompagnatore e mental coach di gruppi italiani. La prossima partenza il 15 marzo sempre per 13 notti. Inoltre continuo a scrivere articoli e libri sulla psicologia dello sport. L’ultimo uscito è Sport, benessere e performance.

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