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Gen 17, 2021 3556volte

Correre per il benessere secondo Blaise Dubois

Correre per il benessere secondo Blaise Dubois Roberto Mandelli

Cinquecento pagine per un volume sulla corsa sono una quantità sicuramente superiore alla media dei libri in commercio sull’argomento: tutti utili, sebbene il 95% delle pagine di ciascuno sia pressoché uguale agli altri (almeno per quanto riguarda i metodi di allenamento, il lungolento e il cortoveloce, le ripetute e gli allunghi, ilminutodicorsa e ilminutodipasso – l’unica cosa della serie che non mi ha mai convinto, sebbene qui a p. 37 la si proponga per la prima settimana del principiante), e a sua volta uguale alle tabelle su riviste patinate e su siti specialistici. Ragion per cui, il suggerimento è comprarne uno ogni dieci anni, perché ogni decade può darsi che cambi nettamente l’ideologia dell’allenamento, anche in dipendenza dalle prestazioni mirabolanti ottenute da questo o quell’atleta d’élite.

Chi scrive, che non è certamente un modello di prestazioni ma quanto a longevità podistica e quantità di traguardi ha pochi rivali, per i primi vent’anni ha corso a istinto, poi si è confrontato con “Correre è bello” e adesso nel cassetto del comodino, dove stanno il cronometro, i tesserini, i certificati e qualche stralcio da giornali di esercizi ginnici (da fare, come sconsigliato, appena alzato) tiene “la bibbia di Lorenzini”. Altro non serve, se non la voglia di correre, in mesi nei quali i malpensanti dicono o impongono di stare in casa a chattare ed aspettare che gli altri guariscano.

Però questo libro è diverso: La salute nella corsa, di Blaise Dubois e Frédéric Berg (in versione italiana, Mulatero Editore, settembre 2020, € 35),  con gli altri non si mette in concorrenza, ma semmai in opposizione: non l’opposizione che una volta si richiamava al Bartali sopravvissuto a se stesso, e adesso ai noVaxnoTavnoOGMno5G (sì soltanto alla conservazione della poltrona parlamentare fino al 2023); ma una ridiscussione ragionata, elaborata, non ex cathedra perché semmai le “cattedre”, gli esperti chiamati in causa, sono una cinquantina: il che porta talora a ripetere le stesse cose in pagine diverse (ad esempio le pagine 105 e 120 sono quasi uguali), e talaltra ad alcuni dissensi interni, o per essere più esatti, ad alcuni accomodamenti dei principii esposti su singole situazioni, per esempio di infortunio. Cito solo il rifiuto, in linea di massima, delle calzature ipertecnologiche, che allontanano il piede dal terreno, temperato dalla raccomandazione di scarpe ‘rialzate’ o plantari per il recupero da determinati malanni.

La filosofia, non nuovissima - sentita anche in Italia da un ventennio circa - e che Blaise Dubois (uno svizzero trapiantato in Quebec, autore principale del libro) mette in pratica nei suoi centri fisioterapici raccolti sotto l’insegna LaCliniqueDuCoureur , dal 2015 anche in Italia (fisiorun.it, con sedi a Lecco e Mandello del Lario), si riassume nel titolo stesso del libro, o in quello del cap. 13, “Ritorno alla natura”. Quello che cominciarono a predicare Daniel Lieberman e Dennis Bramble in base a studi antropologici sulle popolazioni meno ‘civilizzate’ e più vicine all’utilizzo, istintivo sì ma razionale, delle risorse fisiche che rendono l’uomo - a differenza degli altri animali - “born to run”, soprattutto capace di correre a lungo in competizione con le possibili prede o predatori. Studi che sono stati rafforzati e in parte confermati dalle nuove deduzioni sull’uomo preistorico, la cui struttura fisica (cervello a parte) non è molto cambiata fino ad oggi: uno dei segreti è la conformazione dei nostri piedi, con le dita parallele e articolabili in un certo modo; oppure la grande disponibilità di ghiandole sudoripare, che ci garantiscono sempre il mantenimento della temperatura corporea ideale (da profano, resto perplesso alla notizia che l’uomo corre meglio degli altri mammiferi anche perché ha un collo più robusto e può tenere la testa eretta: penso ai miei cani e gatti che, pur correndo ovviamente a quattro zampe, riescono a tenere collo e testa dritta in una posizione che per noi a quattro zampe riuscirebbe molto faticosa; e che lavorando di testa e collo riescono ad aprire le porte: ma forse avrò frainteso).

Dettagli a parte, la materia del libro è ricca e ben ordinata; forse è anche l’essere stata concepita nella lingua francese, dalla struttura affine all’italiana, aiuta nella terminologia, dove la schiavitù degli anglismi è spesso vinta a favore di espressioni più nostre (ad esempio “Allenamento per intervalli” alias API anziché interval training, “trasferimento incrociato” anziché cross training); rimane però il vezzo delle sigle ammiccanti, come KISS “Keep It Simple Stupid” ovvero “non complicare le cose”, e PEACE & LOVE, cioè “Protezione Elevazione Antinfiammatori-da-evitare Compressione Educazione” ecc.

Si premette che correre regolarmente riduce del 63% il rischio di malattie mortali, del 70% l’osteoporosi, del 70% il morbo di Alzheimer, e si aggiunge più avanti che le morti improvvise del podista sono infinitesimalmente superiori a quelle del non-sportivo (roba da 0,0003 insomma).

Non mancano le canoniche tabelle di allenamento, che alle pp. 34-41 differenziano le distanze dai 5 km alla ultramaratona, con la raccomandazione che il terreno ideale su cui correre è il fondo naturale irregolare, che rinforza tutto il sistema muscolo-scheletrico; ancor meglio se si corre a piedi nudi (ma in questo caso l’asfalto è raccomandabile perché non ti nasconde quanto può capitare sotto i piedi). Cercare di tenere un buon ritmo, fare un certo sforzo in allenamento è vantaggioso anche per perdere peso, ma gli atleti non professionisti faranno bene a non sovraccaricarsi oltre la soglia della fatica, e nell’imminenza della gara a fare tapering (uno dei pochi anglismi rimasti), ovvero “scarico”. Bene è anche sostituire una delle sedute settimanali con una sessione non podistica (ciclismo, nuoto, ma pure salto della corda, lavoro coi pesi ecc.); è invece negativo cambiare di punto in bianco i metodi di allenamento o la loro intensità: si calcola che l’80% degli infortuni abbia questa causa.

Ma copio da p. 91 una massima, che in forma diversa è esposta anche altrove: “un dolore recente e acuto è un chiaro messaggio di protezione che il corpo invia per avvisare di non caricare troppo la struttura sofferente”: a p. 92-3 due profili di corpo umano elencano le 23 patologie più frequenti, distinte non solo per il luogo di manifestazione (anca, gluteo, piede ecc.) ma per il tipo di corridore che ne soffre di più (fondisti, trailer, pistard). Ad esempio i podisti non dovranno preoccuparsi degli stiramenti dei muscoli ischiocrurali (dietro della coscia) o di stress metatarsale, perché toccano solo ai pistaioli; mentre solo i maratoneti e i trailer mettono nel conto le tendiniti dei quadricipiti e rotulee, e solo ai trailer capitano le distorsioni della caviglia (naturalmente ci sono le eccezioni). La cura di questi infortuni sarà illustrata più avanti, nel cap. 9 che indico fin d’ora come uno dei più interessanti e utili (non uso l’aggettivo “imperdibile” perché lo lascio ai marchettari).

Piuttosto rivoluzionari i suggerimenti su come trattare un infortunio, alle pp. 99 e ss.: di fronte alle prassi consolidate della modalità “protezione” (riposo, immobilizzazione, trattamenti passivi, efficaci nell’immediato ma dannosi a lungo termine) Dubois raccomanda l’“adattamento”, cioè movimentare il punto dolente, rinforzare le parti ‘concorrenti’, non portare calzature “massimaliste”.

Il punto dolente (in tutti i sensi) è l’impatto al suolo del corridore; l’ideale è “correre senza far rumore”, piegando il ginocchio e con appoggio non di tallone (che viene invece stimolato dalle scarpe troppo rialzate oggi di moda) e ritmo intorno ai 170 passi al minuto (che a occhio mi sembrano molti per l’amatore medio-basso; ma forse basta ridurre la falcata per ottenerli): anche scarpe più leggere, fino alla… nudità, possono aiutare a raggiungere il passo ideale, che consiste pure nel “sollevare i piedi invece di spingerli” (135). Il cosiddetto “allineamento perfetto” è un mito, sfatato da tanti campioni olimpici e mondiali (Radcliffe, Bekele, Jeptoo, Gebre ecc.): non si deve essere terrorizzati da una testa che oscilla o una pronazione (che in sé non è nemmeno un male).

A proposito: alle scarpe protettive, antipronazione e anti-tutto è dedicato il capitolo forse più velenoso del libro, quasi cinquanta pagine dal titolo “Le scarpe da corsa. Un inganno!”: secondo Dubois, i decantati fondamenti scientifici non hanno basi provate, è tutto marketing che cambia il nostro modo naturale di correre predisponendoci maggiormente agli infortuni. Da vittima di una tendinite della bandelletta che compromise la mia prima New York, e dopo tante bacinelle e ionoforesi ecc. fu risolta solo da scarpe con aria o gel, e soprattutto da due plantari su misura, mi permetto di riferire senza prendere posizione. Certo, le prime volte che passai dalle scarp de tenis (grosso modo appartenenti alla categoria “minimalista” prediletta dal volume) a quelle un po’ più professionali, mi sembrava di camminare su quei tacchi che vedevo portare dai reduci da poliomielite: però, bene o male mi sono preservato fino alla tarda età, puntando peraltro sui plantari più che sulle scarpe (per le quali credo di non aver mai speso più di 60 euro, contro i 200 e passa dei plantari). In ogni caso, per onestà di reporter trascrivo i principii di p. 178:
- l’ammortizzazione e il controllo della pronazione non prevengono gli infortuni
- chi usa scarpe ‘minimaliste’ o va a piedi nudi si infortuna di meno (per farsene un’idea basta vedere il profilo e le foto di Carlos Montero, classe 1991, a pp. 486-7)
- attenzione però ai primi tempi per chi passa alle ‘minimaliste’, perché è più a rischio di infortuni.
Viva la sincerità di Craig Edward Richards, della scuola di Scienze biomediche di Newcastle (AUSL) a p. 181: “quando si scelgono le scarpe, non preoccuparti troppo della filosofia o dei dogmi… Siamo ancora lontani dal capire se le scarpe da corsa ci proteggono o meno dagli infortuni”.
L’antidogmatismo e l’appello al buon senso mi sembrano i punti forti di tutta la trattazione.

Che è ancora lunghissima, e per illustrarla tutta ci vorrebbe un altro libro, non certo un articolo su web, dove tutti abbiamo fretta di arrivare in fondo. Tutta la seconda parte è dedicata agli infortuni, e tratta in maniera sistematica quanto sopra anticipato: no alla “ipermedicalizzazione”, al buttare giù qualunque cosa pur di abolire il dolore e tornare a correre; no anche (sorpresa!) al ghiaccio, no allo stretching prima della corsa (che favorirebbe infortuni muscolari), no agli analgesici, che rallentano o impediscono il lavoro di “rigenerazione” fatto da Madre Natura. E segnalo come vera sezione aurea di tutto il libro, per credenti e per scettici, la serie di schede a pp. 275-331, sugli infortuni principali e la loro cura: ecco la citata sindrome della bandelletta che mi fregò a New York trent’anni fa, appunto “la seconda condizione patologica più comune nei maratoneti”, che si può prevenire con esercizi di rinforzo; e la tendinopatia dei quadricipiti, prerogativa del popolo delle lunghissime: curarla con bende più che ghiaccio, nuotate piuttosto che discese-salite, e rinforzando il muscolo. Infine, l’accidente che colpisce tutti i runner: i guai al tendine d’Achille, per i quali (una tantum a p. 314) è consigliato un aumento dell’ammortizzazione e del drop (cioè il tacco rialzato).

Già ho accennato al “rinforzo”, come ingrediente essenziale per la prevenzione e la cura degli infortuni: ecco alle pp. 389-398 una serie di esercizi, questi sì abbastanza noti e dunque di universale raccomandazione (ma non è detto che un libro debba essere tutto originale e ‘diverso’!). Però fa impressione il promemoria a p. 484 di Eric Breton, classe 77, cui fu diagnosticata una “spondilite anchilosante”, che lo costringeva ad andare a quattro zampe: le cure opportune lo hanno portato, negli anni Dieci, a correre prima le maratone sotto le tre ore, poi gli ultratrail fino al micidiale Tor des Géants, e a sentirsi (questo è importante) “grato per quello che ho dalla vita”.

Infine, non meno essenziali i capitoli su alimentazione e idratazione: per la prima, il “ritorno alla natura” si sintetizza nella ricerca di alimenti il più possibile naturali e non artefatti, e nel seguire l’istinto (mangia quando hai fame: anche la ricca colazione e la cena leggera non sono dogmi, p. 405), equilibrando la dieta tra cereali, proteine (poca carne rossa!), frutta e soprattutto verdura, e sapendo come o quando “caricarsi” di carboidrati. Interessante la proposta di p. 417, di un allenamento a stomaco pieno la sera dopo cena, e un altro la mattina dopo appena alzati.
Per l’idratazione, alle scontate accuse verso le bibite cosiddette isotoniche si aggiunge la critica del cosiddetto “mito della disidratazione” (p. 426), che porta all’eccesso opposto del bere troppo, anche quando non si ha sete, causando a volte danni anche gravissimi come l’insufficienza di sodio. Non più di 800 grammi d’acqua all’ora bastano e avanzano; ma c’è anche chi beve e “sala” molto meno, tuttavia mantiene ottime prestazioni, perché non è dimostrato che il sodio assunto in gara vada in circolo in tempo utile, in modo da prevenire i crampi (p. 438-9). Insomma, ognuno è fatto a modo suo, e l’organismo di ciascuno manda il segnale di bere quando è necessario (431), e se Gebre alla fine delle sue maratone perdeva il 10% del suo peso (quasi tutto in sudore), poi lo ripristinava ed era pronto per vincerne un’altra.

Non mancano raccomandazioni per i bambini e per gli anziani, riassumibili nei facili slogan “non è mai troppo presto né troppo tardi”, e per le donne, con attenzione particolare a chi è incinta o allatta (a proposito, anche i reggiseni pare siano inutili se non dannosi). Insomma, per chiudere con una delle affermazioni finali: “la corsa è per tutti, basta scuse!”.

 
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