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Lug 31, 2019 Giovanni Baldini 3441volte

Südtirol Ultra Skyrace: diario di un reduce

Giogo delle Frane: il cielo si rabbuia Giogo delle Frane: il cielo si rabbuia G. Baldini - R. Mandelli

Venerdì 26 luglio, alle ore 12,30, arrivo in treno a Bolzano. Fa caldo, non eccessivo però, contrariamente quanto indicato dalle previsioni meteo dove la città era segnalata col bollino rosso. Si sa che la meteorologia non è una scienza esatta, motivo per cui si parla di “previsioni del tempo”, e questo mi rinfranca. Alle ore 20 successive partirò con altri (più di 200 atleti) per  l’alta via  Hufeisentour, un anello di 121 km e di m 7554 di dislivello positivo, trasformato per l’occasione in un circuito di gara di trail running con l’appellativo suggestivo di Südtirol Ultra Skyrace: siamo alla  settima  edizione. Osservando la mappa, questa evoca inevitabilmente il profilo della  Sardegna (a cui sono legato da vincoli familiari) e abbino idealmente le località per corrispondenza geografica:  Bolzano è Cagliari, la Forcella Sarentina il Golfo di Orosei, il Tellerjoch Olbia, il Penser Joch Santa Teresa di Gallura, l’Hirzerhutte Alghero, il Rifugio Merano Arborea, San Genesio Capo Teulada.

Mi dirigo subito a ritirare il numero di gara presso il centro  Sportler ubicato in prossimità della elegante  piazza Walther, dove partirà poi la competizione. Transitando per i giardini pubblici di fronte alla stazione ferroviaria, assisto al solito squallido copione che si riscontra i tutte le città italiane: ragazzi di colore abbandonati a se stessi che berciano in procinto di azzuffarsi per motivi non certo nobili. L’aria è imputridita dalle zaffate nauseabonde dei cannabinoidi, e quella sfacciataggine mi dà un senso di vergogna. Non mi sembra il caso di chiamare le forze dell’ordine, visto il clima d’impunità e quello che è successo nella nottata nella Capitale: non voglio avere sulla coscienza un altro Carabiniere.
Tuttavia, Bolzano è una città salotto, come del resto tutti gli altri centri minori della sua provincia autonoma. Questa città si colloca ai vertici delle sostenibilità ambientale e della qualità della vita a livello planetario. Non a caso ho visto circolare il bus alimentato a idrogeno, qui dove è presente l’unico punto di rifornimento in ambito nazionale.  Per trascorrere il tempo mi reco a far visita alla splendida cattedrale dove sono in via di completamento i lavori del nuovo organo: si verifica bene l’eccellente acustica dell’imponente struttura gotica.

Dopo un momento di raccoglimento mi dirigo alla vicina Kolpinghaus dove si svolgerà il briefing della gara  e il pasta party.  Manca qualche ora al via e cerco di riposare compostamente in posizione orante su una poltrona, perché mi trovo di fronte al grande crocifisso ligneo che m’infonde serenità:  mi sento amato e protetto.
Consulto per l’ultima volta le previsioni  meteo e queste confermano che nel  pomeriggio di sabato ci saranno temporali, ma nulla di trascendentale. La matematica non è il mio forte. Tuttavia, due semplici operazioni aritmetiche sono in grado di eseguirle e i calcoli stabiliscono che, se tutto filasse per il verso giusto, arriverò (ahimè) nelle fauci del temporale nel tratto più duro e tecnico, cioè dall’Alpler Nieder all’Obere Scharte (Giogo Piatto). Intanto fuori il cielo si fa plumbeo, l’aria si rinfresca e accenna a piovere. Arriva il gruppo dei laziali che conosco; Alberta Ciarla, Gianluca Belardini (che accompagna Veronica Correale), Enrico Lonigro, Mara Cecchini, Fabrizio Ferrari. Evito i citare i loro palmares sportivi per motivi di sintesi e per evitare  vertigini ai lettori. Per molti, la durissima Südtirol Ultra Skyrace è un allenamento  per i cimenti alpini di fine agosto e primi di settembre. 

La partenza avviene in orario e si deve mettere subito  in conto una bella sudata per salire a Soprabolzano, quindi procedo con cautela. Mi sorpassa Silje Fismen,  una bella ragazza norvegese di Tromso, è medico. Aggredisce come un camoscio i primi mille metri di dislivello, desisto ad accordarmi a lei perché è troppo forte. La notte inizia a scorrere tranquilla, ad est si scorge il famigliare profilo dolomitico del Catinaccio e dello Sciliar (Rosergarten/Schlern) dove due settimane prima ero stato impegnato nell’omonima Skyrace di Tiers/Tires. Il cielo è illuminato da una pallida luna calante di un rosa spento, ed è molto suggestivo. Risulta  agevole procedere per quelle strade forestali e sconfinati pascoli. Sono bene equipaggiato. Il mio zaino pesa abbastanza. Calzo una lampada frontale che non illumina a dovere ma in salita il fascio luminoso è bastevole,  non in discesa dove si corre, per cui hai bisogno di molti lumen per preservarti dagli infortuni sempre in agguato. La “pigrizia” m’impedisce dal prelevare dallo zaino quella potente, che mi sono riservato d’indossaree nell’ultima fase della gara, quando la stanchezza e il sonno aggrediranno violentemente. 
Al Corno di Renon, oltre al ristoro, è installata una tenda riscaldata. Si  sta divinamente all’interno di essa anche perché comincia a spirare una brezza e fa freddo. Mi vesto adeguatamente. Cedo il mio posto a un ragazzo alla prima esperienza in un trail lungo, che non ha alcuna intenzione di proseguire subito perché la notte lo spaventa. Contrariamente, per me la fase notturna in montagna assume aspetti particolari: specialmente quando sono in solitudine provo un grande senso d’intimità, insomma mi sento a mio agio. E poi s’incontrano le cappelle votive, delle autentiche opere d’arte abbellite dai fiori che invitano alla preghiera e a una esplorazione interiore: quale compagnia migliore puoi avere?

Scocca la mezzanotte e si passa al giorno di sabato 27 luglio. Sbrigo  col telefono dei doveri familiari non rimandabili. Dalla chiesetta del Morto (Tetenkirchl), si procede per sconfinati pascoli lungo una ampia strada sterrata. Approfitto di questo tratto agevole per socchiudere le palpebre prevenendo la crisi di sonno che temo e che arriverà più tardi alle prime luci dell’alba. Si abbassa la concentrazione e salto le fitte segnalazioni costituite da vernice gialla e dalle bandierine rifrangenti  (queste ultime si trovano spesso abbattute dagli armenti al pascolo). Vedo il fascio luminoso delle lampade  di due atleti che procedono in senso contrario, e dal sospetto giungo alla conferma  di aver sbagliato come loro. Questo errore mi costa un po’ più di una chilometrata.
Arriva il chiarore dell’alba agli oltre 2300 metri del rifugio di Santa Croce di Lazfons, e catturo prima di chiunque questo spettacolo. Il paesaggio è aspro, severo, nettamente diverso da quello delle vicine principesche Dolomiti separate ad est dalla valle dell’Isarco. A nord invece svettano le cime glaciali dell’ Ötztaler. Anche il tracciato si fa impegnativo e pure le essenze della natura cambiano: si diffonde il profumo acre del rododendro, e le marmotte danno il buongiorno col classico fischio. Percorro con cautela un infinito traverso di sfasciumi e la media si abbassa notevolmente. Arriva la crisi di sonno, piuttosto violenta, che m’inchioda le gambe. Devo giocoforza arrestare la mia marcia per riposare le palpebre. Nel frattempo vengo superato da una signora,  l’atleta bolzanina Rosa Maria Unterweger che procede speditamente conoscendo il tracciato a menadito. Non provo un senso di sconfitta, ma solo grande ammirazione per una donna solare più grande di me che m’incoraggia. 

Arrivo al rifugio Forcella di Vallaga (Flagger Schartehutte), dopo aver affrontato dei tratti molto impegnativi, giusto in tempo per la colazione. Non fruisco del ristoro ufficiale, ma mi fiondo all’interno dell’incantevole struttura che domina un laghetto alpino. Mi concedo un caffè doppio e un trancio di torta. Tutto squisito e, dopo aver saldato il conto,  riparto allegramente in direzione del Passo di Pennes (metà gara); parte di questo tratto lo faccio in compagnia del bresciano Fabrizio Papa, con il quale scopriamo che condividiamo alcune amicizie, poi con il trentino di Pergine Valsugana Manuele Delmarco. I nostri colloqui fanno trascorrere il tempo velocemente e prima di scendere in direzione del valico, posso ammirare a nord ovest il Gran Pilastro, che segna il confine di Stato. La città di Vipiteno è sotto, abbastanza vicina.
In prossimità del valico c’è un raduno di Schützen ed è in atto un comizio. I loro sguardi sono torvi e mi osservano con indifferenza quando porgo a loro un saluto. Avranno i loro motivi per essere così adirati. Diversamente, tutta la gente che ho incontrato si è dimostrata molto cordiale.  La sosta è breve al ristoro, e riparto arrivando  presto al Giogo delle Frane,  facendomi largo tra le mandrie dei cavalli avelignesi dalla criniera e coda bianca e dal manto palomino, eleganti sia nel portamento che  nell’aspetto. Affronto la lunga discesa  dell’Oberberg, con una prima parte tecnica, transito per un alpeggio e arrivo al fondovalle (Unterberg) in Val di Pennes:  il caldo si fa sentire. Sono arrivato al km 70 e osservo in alto l’evoluzione del tempo. Nulla fa presagire di ciò che accadrà in seguito. Sono pronto per cimentarmi nel  tratto più impegnativo e suggestivo del percorso in un grandioso ambiente alpino che terminerà al lago di San Pancrazio. S’inizia con 1100 metri di dislivello positivo per arrivare  ai m 2624 di quota dell’Alpler Nieder. Alla malga (Ebenbergalm), dove è ubicato il punto di ristoro, reincontro Rosa Maria Unterweger. Con lei si uniscono una giovane coppia di escursionisti di Bolzano che devono arrivare a Merano 2000 per poi scendere in città con la funivia. Mi riferiscono che ci vorranno cinque ore per arrivare lì, ma loro sono freschi di gambe. Comunque  mi aggrego a loro e nasce un forte affiatamento. Però non forzo i tempi, la mia intenzione è di conservare le energie psico-fisiche nella parte finale, per cui dopo un po’ preferisco lasciarli andare.
Prima del congedo, però,  mi indicano molto in alto sul crinale dei puntini: è il personale del soccorso alpino, i nostri angeli custodi. Meglio non guardare lassù perché potresti essere preso dallo sconforto, e concentrarsi sulla cadenza costante da tenere fissando il suolo cosparso di detriti screziati. Ma il cielo devo continuamente monitorarlo perché il  meteo sta lentamente cambiando e non  voglio mettermi nei guai. Le nuvole, nelle vette prima si addensano, poi si dissolvono. Si odono i primi tuoni, mi bagna la pioggia e più in alto dei piccoli chicchi di grandine: nulla di fastidioso e tutto finirà presto. Un concorrente procede frettolosamente in senso contrario: non è per nulla intenzionato a continuare con quella situazione incerta. A me non desta preoccupazione questa evoluzione, dato che fortunatamente il fronte perturbato è ancora distante dal tratto in cresta su cui transiterò e il vento spira  teso per il verso giusto allontanando la cella temporalesca. I tuoni si susseguono con cadenza regolare. Anche il personale del soccorso alpino abbarbicato per le creste dell’Alpler Nieder non dà importanza alla situazione in continuo sviluppo.

Percorro circa quattro km di cresta, in un ambiente incontaminato  e remoto, circondato da ardite vette, insomma quello che piace a me: la montagna nuda e cruda che esige un passo sicuro e assenza di vertigini. Le nuvole si addensano nuovamente dietro di me accompagnate da sinistri tuoni. Ma sono sceso velocemente di quota per l’estesa comba per raggiungere il rifugio Punta Cervina (Hirzerhütte). Riappare il sole e ciò mi dà  sollievo, tant’è che me la prendo abbastanza comoda: mi siedo al rifugio e trangugio con avidità una boccale di radler e un caffè. Arrivo al punto di controllo per essere “loggato” dal sistema cronometrico elettronico. Tutti i concorrenti hanno in dotazione anche il dispositivo elettronico  di rilevazione satellitare e per il quale si è versata una cauzione di trenta euro, essenziale per la sicurezza, perché  tutti possano vedere dove ti trovi: in particolare la macchina dei soccorsi in caso di bisogno. Poi perdo un sacco di tempo. La mia testa, non so perché,  mi dice di prendere la strada forestale. Invece no, è sbagliata la mia decisione. Deve venire ancora il bello. Risalgo e arrivo all’alpeggio e chiedo all’allevatore, che schiocca una frusta per richiamare alla stalla i suoi bovini,  la direzione per arrivare al rifugio Merano. Mi risponde di salire su per un tremendo drittone  oltre i nevai e scavallare il passo; le  segnalazioni indicano quella direzione, ma - non so come - non ne sono affatto convinto perché da quella direzione mi sembrava di essere prima disceso.  Quindi ritorno nuovamente al rifugio per avere lumi: insomma le segnalazioni sono così fitte da trarmi in inganno. Ecco che incrocio Rosa Maria e la coppia di Bolzano e mi unisco nuovamente a loro, e mi dicono che il tiraccio per arrivare al Giogo Piatto (Oberescharte m. 2698) e alla Punta Cervina, facendo uso di corde fisse nel tratto finale, durerà un’oretta: è il punto più alto della gara.
Le rotazioni delle correnti d’aria cambiano in nostro sfavore, e ciò significa che un esteso fronte perturbato si  sta avvicinando  repentinamente in direzione del Giogo Piatto. Il cielo si fa cupo e l’ammasso è sinistro. Si sta realizzando purtroppo ciò che avevo pronosticato: di ritrovarmi in cima alla montagna tra fulmini e saette. Gli altri tre sono già in cima e stanno affrontando la difficile discesa in mezzo a un’interminabile sassaia. Io spingo forte per l’erta per togliermi in fretta da quella pericolosa situazione facendo uso (e rischiando) delle corde fisse d’acciaio, sperando una volta arrivato in cima di non procedere in cresta. Ora Madre  Natura sta diventando  matrigna. Mi sembra di essere in un girone infernale per come è nero funereo  attorno a me e, appena la Punta Cervina è avviluppata dalle nuvole arriva la scarica di fulmini che colpiscono le pareti del massiccio, e inizia la gragnola di grandine. I boati quasi mi stordiscono, ho paura ma i nervi sono saldi: nel taschino del pantalone ho la coroncina del Rosario, quella di  Gerusalemme che ho posto sulla Pietra dell’Unzione, sulla roccia del Golgota e sull’edicola del Santo Sepolcro a  marzo. Al collo porto la Tau e la medaglia miracolosa della Madonna, quella di Santa Caterina Labouré realizzata per i fatti avvenuti di Rue di Bac n. 180 a Parigi, che mi fu donata da un frate sul Gran Sasso d’Italia. In pratica  mi sento avvolto da uno scudo protettivo.

Cerco, in preda alla paura pregando, un antro per attivare le procedure previste per non rimanere folgorato: spegnere il telefono, assumere una posizione fetale, seduto sopra lo zaino  per essere isolato dal  suolo, una situazione che non può protrarsi a lungo perché a circa 2700 metri di quota di quota fa freddo e rischi l’ipotermia. Non esiste lì un luogo adatto, le  pareti di quel versante sono   troppo ripide e la montagna è tutta imbiancata fino alla comba sottostante che devo raggiungere ora a tutti i costi nel più breve tempo possibile. Fatico a mantenere l’equilibrio sul sentiero colmo di grandine, ma ora è una questione di sopravvivenza e aggredisco la discesa incappando in tre cadute che non hanno conseguenze. Il poncho che indosso risulta provvidenziale, riesce a mantenere il bilanciamento termico del mio organismo, però in questa situazione di estremo pericolo i lembi s’impigliano nelle rocce e destabilizzano la mia corsa. Sono sceso di quota, la fase elettrica sta scemando così come la probabilità di essere colpito da una scarica. La grandine in basso si è trasformata in pioggia intensa, i sentieri sono diventati torrenti e affondo nell’acqua fino alla tibia. Sono cosciente che se dovesse cadere un fulmine al suolo così inzuppato d’acqua, difficilmente avrei  scampo. La mia corsa è veloce e guadagno molto tempo. Supero un atleta che parla solo tedesco: m’invidia il poncho e soprattutto gli alpenstock di legno che mi contraddistinguono e che  suscitano ilarità. In pratica si sono rilevati una scelta vincente: hanno abbassato il calcolo delle probabilità dall’attrazione  dei fulmini e mi hanno sostenuto sul ghiaccio e dal fango a scendere dal Giogo Piatto. Se avessi avuto quelli di metallo o in grafite avrei dovuto abbandonarli, con tutto quello che ne avrebbe conseguito. L’intensità della pioggia diminuisce procedo per un traverso in direzione del lago di San Pancrazio, e raggiungo con una volata il trio bolzanino. La tensione diminuisce per lo scampato pericolo.

Però vedo arrivare l’elicottero del Soccorso Alpino e sono in vista del pittoresco citato lago. Brutto segno. Spero tanto che si tratti di un’evacuazione per un  banale infortunio. Il velivolo atterra e decolla immediatamente, con un’operazione da manuale. Vengono caricate sul pattino due guide che rimangono all’esterno, e da ciò intuisco la gravità della situazione.  I volti del personale medico lì presenti non sono rassicuranti. Tuttavia non vengo fermato al rifugio Kesselberger e posso continuare per raggiungere il rifugio Merano. Rosa Maria mi assicura che chi arriva lì non verrà più fermato e potrà continuare verso il traguardo al Parco del Talvera di Bolzano distante appena 26 km, tutti in discesa. La mia andatura aumenta, corro velocemente e al crepuscolo in mezzo alla nebbia arrivo al rifugio Merano abbastanza affollato. Ho percorso 96 km dei 121.  Alle ore 6,45 dell’indomani ho il treno di ritorno e non rischierò di perderlo.

Mi preparo per il tratto finale e invito il corregionale Marco Paglia di unirsi a me, ma al momento dell’uscita arriva la dolorosa notizia. E’ caduto un fulmine sul lago di San Pancrazio poco prima che arrivassi mentre transitavano due atleti, tra cui il medico norvegese Silje Fismen. La scarica elettrica li ha investiti e Silje ha avuto la peggio subendo un arresto cardiaco, mentre l’uomo è rimasto solo tramortito. Vani sono risultati i tentativi di rianimarla. La competizione viene annullata, come è giusto che sia per rispetto della vittima, e tutti noi presenti veniamo trasportati a bordo di fuoristrada a valle ad Avelengo  e poi da lì su altri mezzi fino a Bolzano. (NdR: il comunicato ufficiale dice che la gara era stata sospesa già mezz’ora prima dell’incidente).

http://podisti.net/index.php/cronache/item/4537-tragedia-alla-suedtirol-ultra-skyrace-muore-folgorata-silje-fismen.html

Il cordoglio è anche per gli organizzatori che, a mio avviso, non hanno alcuna colpa al riguardo. Non ho nulla da eccepire in merito alla perfetta organizzazione. E’ stata solo una tragica fatalità che poteva succedere  a chiunque:  le vittime non si trovavano  in  cresta come me: erano  su un pianoro dove potevano procedere in tranquillità, anche se bagnati.

Cara Silje, per un cristiano il trapasso significa il distacco dell’anima dal corpo. E’ una concezione antica del pensiero occidentale e orientale, che esista un’anima immortale. Oggi parlare di questo suscita sdegno, impera il nuovo totalitarismo, cioè l’uomo si è sostituito a Dio. Eppure  io spero che tu abbia salva l’anima. Prego per te in Cristo risorto misericordioso: ti accolga alla Gerusalemme celeste dove riposerai in pace. Amen.

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