Quand'ero alle elementari, alla fine di ogni anno scolastico, l'istituto organizzava “la giornata dello sport” durante la quale le sezioni delle varie classi si sfidavano in diverse discipline sportive (corsa veloce, salto in alto, salto in lungo, lancio del peso…). I vari insegnanti dividevano gli studenti in base alle loro attitudini e li schieravano sul campo a contendersi medaglie e primati.
Ai tempi giocavo a calcio e sinceramente mi interessava solo battere quei maledetti della “B”, magari infilandogli pure il gol vincente all'ultimo minuto. Ma il nostro maestro voleva categoricamente che, a prescindere dall'esito delle varie gare, tutti quanti partecipassero all'ultima competizione della giornata, la mitica “campestre”: un chilometro e mezzo di corsa lungo un sentiero ad anello tra i campi. Io la odiavo quella gara… Ogni volta partivo a razzo convinto di poter vincere e poi, già a metà percorso, non avevo più fiato ed ero costretto a camminare fino all'arrivo.
Mio padre, invece, se la correva eccome: tesserato presso la società podistica “I Gamber de Cuncures”, aveva partecipato a svariate gare. Così, fin da piccolo, ho iniziato a vivere da spettatore il contesto “running”, tifando per papà e apprezzando la dedizione con cui gli atleti affrontavano le gare, tra divise colorate, scarpe di marca, pronostici, tabelle, classifiche, sudore e fatica. E mentre in settimana, tra i banchi di scuola, si celebrava il mito della maratona nella Grecia del 490 a.C., tutte le domeniche, in mezzo al fango o al termine di un'estenuante salita, vedevo tanti Filippidi che, stremati e acclamati dalla folla, tagliavano il traguardo di una qualche tapasciata.
Ero convinto che mai sarei riuscito a fare qualcosa di simile…
E invece, eccomi qua, Milano, Piazza Duomo, 6 aprile 2025, ore 08:30, determinato a vincere la sfida personale: correre una maratona entro i 50 anni (compiuti a febbraio), tentando di chiuderla in 04:30:00. Ma lo start del settore 8 tarda ad esplodere, così ho ancora qualche minuto per ricordare tutto quello che mi ha portato dove mi trovo ora: il lunghissimo piano di allenamento di 4 mesi, con 4 uscite settimanali, diversificate tra ripetute, fartlek, lunghi lenti e sedute rigeneranti, intensamente vissuto con tutte le possibili condizioni meteo; i consigli degli amici esperti, le raccomandazioni del fisioterapista, gli incitamenti dei colleghi, il tifo dei familiari, le tracce di Strava, le playlist di Spotify…
Si parte! I primi 10 km se ne vanno quasi in scioltezza e addirittura mi ritrovo accanto ai pacer delle 4 ore, forse sto andando troppo veloce, ma sto bene e mantengo il ritmo, ogni tanto supero qualcuno e la gente a bordo strada che mi chiama per nome mi fa sentire come Rocky Balboa mentre attraversa il mercato di Philadelphia; e così anche io saluto sorridendo come se fossero lì tutti solo per me.
Km dopo km, ristoro dopo ristoro, mi sembra di riuscire a mantenere una buona andatura costante: cerco di non pensare a quanto manca ma i cartelli che scandiscono il chilometraggio sono talmente grandi che è impossibile ignorarli. La fatica inizia a farsi sentire ma siamo praticamente a metà strada e un bel sorso di gel isotonico mi illude di essere un professionista della distanza.
I palloncini rosa delle 4 ore vanno e vengono, ma fino al trentesimo km sono deciso a non mollarli.
Poi, all'improvviso, sento un disperato bisogno di rallentare, “Houston, abbiamo un problema”: la spavalderia si dissolve in un istante ed entra in scena la paura di non farcela. E così, dal km 34 al km 38 assisto inerme alla fase più critica di questa esperienza: sono costretto a camminare per alcuni tratti, per riprendere fiato ma soprattutto per ritrovare la motivazione di riprendere a correre. Nel frattempo vengo superato dai palloncini verdi delle 4 ore e 15, proprio mentre inizio a realizzare che altri 4 km sono davvero troppi per la condizione fisica in cui mi trovo: gambe pesantissime, mal di schiena e un'improvvisa voglia di farmi una doccia e sdraiarmi sull'erba a prendere il sole.
Ma fortunatamente mi ricordo di indossare una maglietta con la scritta “SFRENATI: passione in movimento”, un logo e uno slogan che insieme al mio amico ciclista Paolo abbiamo creato per dare un'identità grafica al nostro modo di vivere lo sport: liberi da freni fisici e psicologici, determinati a raggiungere gli obiettivi che ci siamo prefissati, esprimendo al massimo la nostra energia interiore che ci spinge oltre ogni barriera. Essere “sfrenati” non significa solo allenarsi senza tregua ma anche rendere ogni esperienza un'opportunità di crescita personale continua.
Riprendo a correre. E per ogni passo, per ogni respiro che mi ha portato fino a qui, l'unico ostacolo che vedo ora davanti a me è proprio quello che voglio lasciarmi alle spalle.
Taglio il traguardo in 04:19:28.
Si conclude così la mia Milano Marathon 2025: una medaglia col mio nome, una maglietta con la scritta “finisher” e tante nuove strade da percorrere… Ma intanto, un ringraziamento speciale a papà Roberto, che dopo avermi ‘creato’ anche come podista, oggi mi ha accompagnato e fotografato in occasione di questa impresa, divenuta memorabile anche in suo nome.