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Apr 20, 2020 Marco Dotti 4118volte

Pecore nere e spirito di gregge: tra norme emergenziali e interdizioni sociali

Tanti clandestini... Tanti clandestini... Roberto Mandelli

Nelle ultime settimane si ripete spesso che, di fronte all’emergenza sanitaria causata dal covid-19, gli italiani sono diventati tutti virologi, presidenti di regione e dirigenti della protezione civile, replicando ciò che avviene durante i mondiali di calcio, quando indossano prontamente le vesti dell’allenatore della nazionale. La generalizzazione ha sempre un valore limitato: per quanto mi riguarda devo ammettere che nemmeno in un incubo avrei voluto realmente stare nelle stanze dei bottoni locali o centrali. Credo che si debba guardare con una certa tolleranza alle decisioni assunte in simili circostanze, un po’ meno invece alle carenze strutturali, maturate nel corso di decenni di incuria della res publica e di privatizzazione selvaggia. Sarei ancora meno indulgente nei confronti di molti operatori dei media, specialmente conduttori di trasmissioni televisive pseudo-informative e realizzatori di “servizi” ad uso e consumo delle stesse.

Tutti ci rendiamo conto che non è questo il momento di aggrapparci alle nostre reiterate abitudini, puntando i piedi se ci viene motivatamente chiesto di adeguarci a una situazione emergenziale. Alla maggior parte degli sportivi si è imposto, fin dai primi dpcm di marzo, di rinunciare alle rispettive attività, dapprima seguendo un criterio razionale, ovvero sospendendo tutte le pratiche che rendevano difficile o impossibile evitare il contatto fisico e la condivisione forzata di spazi troppo angusti. Il legislatore ha logicamente ritenuto di salvaguardare alcune attività sportive che possono essere svolte all’aperto e in modo distanziato. Su questo punto, senza alcuna competenza specifica, mi permetto di dire che sarebbe stato più lungimirante autorizzare da subito un’attività motoria individuale, precisando che il distanziamento riguarda le persone che eventualmente si incontrano sul proprio tragitto. In secondo luogo, credo che l’ormai famoso metro di distanza non sia sufficiente in alcun contesto, tantomeno quando si corre.

In ogni caso, come tutti sappiamo, tale situazione è durata poco e si è ben presto ritenuto di vietare ogni attività motoria all’aperto, salvando per così dire uno spazio più virtuale che reale nelle immediate prossimità del proprio domicilio. Le restrizioni affastellatesi nella seconda metà di marzo non sono motivate da medici, scienziati e amministratori, o quantomeno non sono giustificate razionalmente. L’argomento preferito è che “i runner corrono mentre la gente muore”. “Tanti i contagiati ma i runner corrono” titolava, se ricordo bene, un memorabile servizio con cui tale Piazzano, ancora prima che subentrassero delle norme più restrittive, additava podisti veri e improvvisati, mostrando al contempo delle qualità sportive all’altezza di quelle giornalistiche. Si sono accodati gli amministratori regionali che, di fronte a un’ondata di contagi e a un sistema sanitario sull’orlo del collasso, hanno pensato che la loro priorità fosse quella di impedire corse e passeggiate. Uno reclamò l’esercito per impedire le “corsette”, dicendo – contro ogni evidenza – che lo stava chiedendo gentilmente, ma minacciava contestualmente le maniere forti; un altro si presentò a muso duro dicendosi pronto a portare chi voleva correre in terapia intensiva, come se ci fosse una relazione tra le due cose. Quando ci ripenso non riesco proprio a non cogliere la teatralità di tali esternazioni. Sarà per via della prossemica forzata, o del primo approccio alle mascherine spaesato e creativo, ma nella mia memoria quelle dichiarazioni sono rimaste impresse come le mosse caricaturali e rumorose di wrestler un po’ imbolsiti.

Voglio essere chiaro su questo punto: credo che gli amministratori locali fossero veramente preoccupati e quasi prostrati dalla tragedia che le rispettive regioni stavano vivendo, ma sono altrettanto convinto che nemmeno loro pensassero che il contagio stesse correndo sui piedi dei podisti anziché nelle corsie degli ospedali e delle Rsa, sui binari del trasporto pubblico, nei luoghi di lavoro, nei supermercati e – ancora prima dell’11 marzo –  sui tavoli dei bar, aperti fino alle 18, proprio a favore della clientela più suscettibile al virus (potete chiedere conferma a qualche medico condotto o a qualche sindaco della Bassa bresciana).

C’è però un trait d’union che lega i principali slogan usati da media e politici per impedire lo sport individuale all’aperto ed è questo: nessuna di queste affermazioni mostra la volontà di scendere sul terreno delle argomentazioni serie per confutare la tesi opposta, ovvero quella che il legislatore aveva assunto sulla base delle evidenze scientifiche. In altri termini, è come se si dicesse – ma con tono molto assertivo – “I profughi annegano ma i bagnanti nuotano”; “Se qualcuno mi dice di voler fare il bagno lo porto a vedere le salme dei profughi partiti dalla Libia”. Si tratta di un modello retorico che usa la morte o la tragedia per inverare un divieto che non ha nessuna relazione con la realtà che lo dovrebbe giustificare. Avrebbe senso, al contrario, dire “Non ci sono i posti in terapia intensiva, quindi sanzioneremo più pesantemente gli evasori fiscali”. Persino “Gli evasori fiscali hanno ucciso migliaia di malati di covid-19” avrebbe più senso. Scommetto tuttavia che queste ultime proposizioni non verrebbero accolte con annuenti sospiri.

C’è tuttavia chi prova timidamente ad argomentare le limitazioni, affermando ad esempio che l’attività motoria individuale potrebbe offrire a qualcuno la scappatoia per incontrarsi, socializzare, ecc. In Italia però non si è mai praticata una serrata in stile cinese e probabilmente non sarebbe stato possibile farlo, se non forse all'inizio e in territori circoscritti. Un italiano su due va a lavorare, tutti ricevono merci e servizi a domicilio ed escono per la spesa, senza limiti di alcun tipo per quanto riguarda l'approvvigionamento domestico. Mi sembra evidente - se non si vive su Marte - che al supermercato, nei luoghi di lavoro e negli spostamenti, il distanziamento sociale e le norme di prevenzione dipendono sostanzialmente dalla responsabilità individuale. A questo punto non si capisce perché limitare drasticamente la pratica dello sport individuale all'aperto e le passeggiate solitarie, con palese detrimento della salute fisica e mentale dei cittadini. Si potrebbe obiettare che l'attività motoria individuale potrebbe poi trasformarsi in collettiva, ma questo vale per tutti gli spostamenti consentiti: non credo di essere l'unico che si imbatte in piccoli drappelli di persone che si incontrano nei punti vendita o fuori dal fornaio, cosa probabilmente inevitabile e troppo radicata nelle abitudini sociali per estirparla con un decreto, ma che francamente non mi capitava di vedere, quantomeno tra i podisti, quando ancora potevo raggiungere la collina per correre a metà giornata. Forse chi corre è ossessivamente attento a evitare ogni magagna, oppure è più abituato ad anelare la solitudine al traguardo e soprattutto sa di doverla divorare a ogni passo. C’è infine chi afferma: “Se tutti uscissero a correre la strada sarebbe affollata”. Lo si può dire con compiaciuta sicumera anche ai podisti, che raramente segnalano la contraddizione più palese di tale affermazione, temendo che si possa trasformare in un boomerang, privandoli anche della corsa o della passeggiata di quartiere. Se fosse vero – e non lo è – che lasciando tutti liberi di correre ovunque (magari cercando spazi isolati) le strade si riempirebbero di torme di podisti e camminatori veri o presunti, dovremmo a maggior ragione ritenere pericoloso costringere tutti a muoversi sotto casa, in aree densamente abitate. Se tutti i condomini di un qualsiasi quartiere residenziale di Milano o di Torino iniziassero a girare contemporaneamente sotto casa come la metteremmo?

Vale la pena di rilevare che nella prima ‘zona rossa’ lombarda, istituita nell’area di Codogno e dei comuni immediatamente limitrofi, indicata come esempio positivo per i buoni risultati raggiunti in breve tempo, l’attività motoria era consentita se non addirittura promossa. Le persone intervistate sottolineavano spesso come si fosse riscoperto lo sport e anche il territorio, finalmente percorso a piedi da un paese all’altro, come forse non avveniva da quasi un secolo. Non mi pare che i sedentari passassero il tempo a lamentarsi dei podisti e i secondi a sottoporre all’analisi della falcata chiunque osasse correre, allo scopo di isolare lo sportivo improvvisato.

Rispetto alle attività produttive e commerciali ci siamo legittimamente posti molti problemi di natura pratica ed economica e abbiamo evitato una soluzione cinese (il modello Wuhan), ma sorprendentemente sulla sospensione delle libertà individuali siamo stati molto meno “occidentali” di quanto avessimo immaginato.

La sensazione è che il governo italiano si sia inizialmente mosso con una certa cautela, cercando un equilibrio tra esigenze di natura sanitaria ed economica, trovandosi paradossalmente (e credo non senza sorpresa) incalzato da un ventre populista-mediatico (i social rappresentano il pieno compimento di tale crasi), le cui istanze non riguardano né l’una né l’altro campo,  ma la ricerca di uno sfogo per le angosce collettive (una “metamorfosi della paura”, saccheggiando il titolo di un bel libro di Roberto Escobar). Lo spirito di gregge è maturato ben prima dell’immunità.

Forse un giorno saremo disposti ad ammettere che alcuni divieti, tra cui quelli relativi alle passeggiate solitarie e all'attività motoria, sono stati irrazionali e pericolosi. Non sarebbe nemmeno il caso di farla tanto lunga, se non pensassi che tali restrizioni non riguardano, se non superficialmente, queste specifiche attività. Credo che gli sportivi si siano trovati in una scomoda posizione che sarebbe potuta – altrettanto arbitrariamente – toccare ad altri. C’è una “farmacopea sociale” molto antica, che consiste nella ricerca di un capro espiatorio. Si potrebbero ricordare le numerose attestazioni di una pratica diffusa nelle città dell’antica Grecia che, di fronte a epidemie e calamità, prevedeva che alcuni individui, i pharmakoi, fossero liberati, inseguiti per le strade, incolpati, insultati e frustati dalla cittadinanza, per essere infine espulsi dalla polis e talvolta uccisi. Si potrebbe dire – scherzando, ma non troppo – che noi, correndo sotto le finestre di appartamenti ormai stracolmi di angoscia, abbiamo fatto metà dell’opera. Le colpe le abbiamo prese, gli insulti pure. A distribuire generosamente le frustate verbali ci hanno pensato gli influencer, ben sintonizzati con la tendenza (la cui assonanza con intelligenza è solo fonetica), i programmi televisivi a corto di idee, nonché i comuni cittadini. Capita così che le stesse trasmissioni che si prefiggono l’obiettivo del “servizio pubblico” a ogni piè sospinto, propongano l’inseguimento aereo del podista, accompagnandolo con il sonoro della Cavalcata delle valchirie di Wagner (musica che, come disse Woody Allen in una memorabile battuta, fa sorgere un’irrefrenabile “voglia di invadere la Polonia”). Non sfugge a nessuno come il montaggio stesse citando la “guerra psicologica” che, in Apocalypse Now di Francis Ford Coppola, preannunciava l’attacco degli elicotteri americani al villaggio vietnamita. Consiglio di rivedere il servizio (ancora reperibile in rete) e lascio che ognuno ne interpreti la semantica.

 A questo paradigma – che definirei “catartico” – si affianca un secondo modello di disciplinamento, che Michel Foucault chiamò “panottico”, riferendosi alla tecnologia carceraria ideata dal filosofo utilitarista Jeremy Bentham. L’architettura del Panopticon prevedeva un anello di celle, totalmente permeabile allo sguardo, al centro del quale si poneva l’osservatorio dei sorveglianti, ottenendo un sistema pervasivo ed economico. La sparizione del potere, o meglio la sua liquefazione e interiorizzazione, era il vero obiettivo del modello che, a pieno regime, prevedeva che i carcerati stessi facessero propria l’istanza disciplinare, censurandosi in prima persona e spiandosi reciprocamente. “La perfection de la surveillance, c'est une somme de malveillance” scrisse Foucault. La perfezione della sorveglianza si ottiene mettendo al lavoro e sommando le malignità e i sospetti di tutti. Secondo l’Autore furono però le epidemie – in particolare la peste in età moderna – a costituire la prima palestra della tecnologia politica. Nella città appestata si dispongono regolamenti che penetrano ogni aspetto della vita dei singoli, si dispongono rastrelli, si separano i quartieri, si controlla ogni movimento, si etichettano le persone, assegnando a ognuno uno spazio specifico. Ogni azione è documentata e ogni spostamento accompagnato dal “bollettino di sanità”.

Le similitudini tra il coronavirus e la peste – come ha recentemente osservato Alessandro Pastore – si fermano nella maggior parte dei casi alle apparenze (alle false somiglianze). I suddetti meccanismi però accompagnano sempre la vita associativa, come un virus silente e – attenendoci alla metafora – possono prendere il sopravvento quando crisi di diversa natura indeboliscono il sistema immunitario della società.

Preso atto che il problema del covid-19 non si è definitivamente risolto con un confinamento temporaneo, ora sarà necessario andare oltre la ridda semplificatoria dello “state a casa”. Occorrerà spiegare un po’ meglio quali sono le situazioni pericolose e quali sono le attività sicure, in modo meno formalistico e prescrittivo di quanto si sia fatto finora. Purtroppo ha prevalso la logica del semaforo: si può fare la spesa e quindi ci vado ogni giorno e con la mia bella mascherina mi fermo anche a parlare con tutti in un luogo chiuso e affollato; al contrario non si può correre – non sarebbe propriamente così, ma questa è la percezione comune e il messaggio che è stato veicolato anche da numerosi (dis)servizi pseudo-giornalistici – quindi dal mio balcone riprendo quello che osa farsi una corsa o conto le uscite del cane del vicino, controllando se c'è o meno la relativa deiezione.

La strada sotto casa si sta riempiendo di veicoli, non per via di automobilisti indisciplinati, ma perché in Lombardia si sta tornando a lavorare. Per ora, tuttavia, tranne che in fortunate province autonome, camminatori e podisti italiani dovranno ancora portare la loro palla al piede: qualcuno continuerà a girare attorno a casa, sotto lo sguardo non sempre benevolo dei vicini, mentre pochi oseranno avventurarsi in spazi aperti, rischiando di essere braccati, inseguiti con ogni mezzo e denunciati.

 
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