Correre è anche una filosofia: parola di Stefano Boldrini
Un altro libro sul podismo? Nel capitolo 11, intitolato alla Moda, l’autore del libro di cui andiamo a parlare tratta con giustificata ironia il comportamento di chi, podista o no, si adegua al fashion calzando indumenti costosi e probabilmente inutili, come i pantaloni aderenti detti joggers, ma di tendenza e che “fanno fico”,: i quali però, almeno in qualche caso, hanno orientato i non praticanti verso la corsa o almeno il suo “derivato leggero”, il walking.
Nelle mode indotte dal fenomeno podistico possiamo includere anche la pubblicazione di libri, inizialmente ristretti all’aspetto tecnico (allenamento, nutrizione ecc.), ma poi via via allargati all’autobiografismo sulla base del principio che “se questa cosa interessa me, deve interessare anche gli altri”. D’altronde, se calciatori, tennisti eccetera hanno imparato ad aggiungere ai propri proventi anche quelli derivanti dalle “Confessioni” che si fanno scrivere e firmano, ben vengano i libri dei podisti (che molto spesso, a differenza dei suddetti, quei libri li autoproducono e autopagano, coprendo talora le spese con la vendita durante la cena sociale o nella serata culturale alla biblioteca di quartiere), se come effetto collaterale ottengono di invogliare all’emulazione (della corsa, non della scrittura!).
Tanto più se i libri sono scritti bene, con perizia, senza faticosi approcci sintattici o cedimenti a tentazioni poetiche, ma con un giusto equilibrio tra l’informazione per principianti, la curiosità aneddotica, lo spaziare dai grandi campioni al signor Nessuno che correva a torso nudo tutte le mattine su un lungomare del Ghana, e una componente di autobiografismo che quasi mai scade nel narcisismo. È sicuramente il caso di questo La filosofia della corsa, sottotitolato Fra benessere e libertà: lo sport che ti cambia la vita, scritto da Stefano Boldrini, giornalista romano ormai sessantacinquenne e già presente in libreria con diversi titoli soprattutto di argomento sportivo, come ben si conviene a un ex corrispondente da Londra della “rosea”, testimone di Olimpiadi e Mondiali (un paio di volumi li abbiamo messi a incorniciare l’immagine del libro di cui parliamo oggi, 200 pagine di agevole lettura, pubblicate in questo marzo 2024 dalla Diarkos di Santarcangelo di Romagna e in vendita a 18 euro scontabili).
D’altra parte, alcuni libri sono stati fondamentali per diffondere la pratica di un esercizio fisico che fino ai primi anni Settanta era oggetto di ironie (giustamente si ricorda la caricatura fatta da Alberto Sordi, nel film Mamma mia, che impressione! del 1951, di un poveraccio che partecipa a una “maratonina” di marcia per conquistare il cuore della “signorina Margherita”): nel 1977 venne il volume del pioniere James Fixx, conosciuto in Italia nel 1980 col titolo Il libro della corsa, mentre la moda del jogging si diffondeva dagli USA all’Inghilterra e poi nel resto del continente anche grazie a libri come Jogging di Bowermann (1966), L’arte di correre di Murakami (2007, in Italia nel 2009) per arrivare nello stesso 2009 a Born to run di Mc Dougall, trascinato ovviamente dall’omonima canzone-culto di Bruce Springsteen del 1975.
Anche il cinema, ovviamente prodotto negli States, ci mise del suo, cominciando da Il maratoneta (Marathon Man) del 1976, di John Schlesinger con protagonista Dustin Hoffmann sulle strade di New York; continuando nel ’79 con le mitiche corse in salita per Philadelphia di Sylvester Stallone alias Rocky, e per finire nel ’94 con Thom Hanks alias Forrest Gump, di Robert Zemeckis, tra i memorabili scenari di Savannah con la sua panchina e il deserto monumentale dell’Arizona.
Dopo film del genere (opportunamente ricordati da Boldrini) era impossibile non indossare un paio di scarpette e mettersi a correre per le strade, favoriti anche da iniziative lungimiranti collegate in parte alla crisi energetica dei primi Settanta: tra queste, “Corri per il verde”, lanciata nel ’73 dalla Uisp romana cominciando a instillare una sensibilità ecologica.
Approdo quasi inevitabile delle corse su strada è stata la maratona, che in Italia fu “prodotta” dapprima da piccole realtà locali (quanti conoscerebbero i nomi di Vigarano, Russi, Vedelago, Cesano Boscone se non ci fossero state le maratone?), poi fagocitata dalle metropoli che tentarono di applicare da noi gli strabilianti exploits di New York e delle altre majors (che Boldrini a p. 156 scrive mayor, in una delle poche sviste tipografiche del libro): tra le grandi città nostrane, l’autore ricorda gli esordi di Firenze nell’84 e Venezia nell’86.
Alla grande storia del podismo come fenomeno collettivo, Boldrini fa seguire Storie (titolo del cap. 13) individuali, cominciando dai vip come i calciatori Bergomi e Ambrosini, che a fine carriera scoprirono la maratona (pagando il quasi obbligatorio pedaggio a New York), e da Gianni Morandi che, in un momento di stanca sulle scene canore divenne apostolo dello sport praticato, e ancor oggi sulla soglia degli ottant’anni si fa vedere non solo sui palcoscenici. Un caso particolare è quello del giornalista Roberto Di Sante, guarito dalla depressione grazie alla maratona (per la quale ha collezionato le sei majors, raccontandolo poi in un libro di successo). Ma il vip che più d’ogni altro merita l’elogio è Nelson Mandela, che sopravvisse 18 anni in una cella di 6 mq imponendosi di correre “sul posto” ogni mattina per 45 minuti più un quarto d’ora di esercizi addominali: e l’autografo di Madiba è una delle cose più care che Boldrini ha portato a casa dopo aver scorrazzato per tutto il mondo.
Accanto a loro tante altre persone che non conquistano pagine di rotocalco o friabili like, ma meritano ugualmente di essere ricordate: il barbiere Molinari da Frascati, alias “Maestro” (anche del Di Sante ricordato sopra), Rosario da Vibo Valentia, che nella corsa ha trovato la cura più appagante contro la talassemia; suor Elena, già nazionale giovanile e maratoneta, poi entrata nelle salesiane di don Bosco, con missioni anche in Africa, e l’intento di insegnare lo sport ai ragazzi che altrimenti non lo farebbero.
Sulle storie degli altri si innestano quelle personali dell’autore, giramondo che dopo un lungo soggiorno londinese adesso sembra aver trovato la pace in Portogallo, arricchita dai sorrisi di quella Giulia cui il libro è dedicato: ma dovunque sia stato (un elenco piuttosto dettagliato è nel cap. 5 Turismo), dopo la scoperta della corsa a 28 anni durante il servizio militare a Portogruaro, ha sempre portato con sé e impolverato le scarpette da corsa. Una sola volta non c’è riuscito, in Cina, dove l’aria irrespirabile lo bloccò; in compenso l’ha fatto anche in Albania, più o meno sotto le bombe, dove il provvidenziale apparire di un cane randagio permise a lui e compagni di schivare le attenzioni di una banda criminale (mentre in Italia, semmai, urge proteggere i joggers dai cani, quelli “da guardia” lasciati liberi dai padroni: è l’argomento del capitolo 16 aggiunto in extremis, dopo un episodio luttuoso di metà febbraio scorso).
Non tutto è oro nel podismo: si va dalle esagerazioni ovvero Estremismo (così il cap. 10), la ricerca di competizioni sempre più abnormi, dove la descrizione e la quasi-ripulsa è temperata dalle interviste a due ultramaratoneti dal volto umano come Ivan Cudin e Giorgio Calcaterra (e personalmente, non accosterei la quasi goliardica Winter night di Dobbiaco a certe gare in Siberia); e si sconfina nel doping, oggetto del cap. 6 dove va apprezzata la difesa di Sandro Donati, il cui libro Campioni senza valore del 1989, e i successivi interventi, hanno portato al risultato che “la cupola internazionale del malaffare ha cercato di ostacolare e persino screditare in mille modi” la nostra “eccellenza della lotta al doping” (mille modi… più uno, se aggiungiamo l’affare-Schwazer, per il quale a p. 87 Boldrini si vale del termine “opacità”).
Mentre, una sorta di doping a rovescio fu quello impostoci durante il Covid, in totale e rovinosa controtendenza rispetto, per esempio, all’Inghilterra dove risiedeva l’autore al momento: sottoscrivo quasi per intero il contenuto del capitolo 9, in particolare sull’“effetto terapeutico” che ebbe il permesso di correre accordato agli inglesi (pp. 114-5), mentre noi italiani dovevamo vedercela con norme assurde, vigilantes idioti e ironie strapaesane come quelle del cosiddetto governatore De Luca (ma non è che il governatore dell’Emilia Romagna, e il suo draculesco assessore alla Salute, abbiano razzolato tanto meglio).
Oggi, tornata la libertà, tuttavia nei podisti “normali”, col passare degli anni, possono subentrare periodi di stanca, con la voglia di smetterla una volta per tutte; qui viene buono (anche per chi scrive ora) il cap. 15 sulla Fantasia: essere creativi negli allenamenti, cambiare itinerari, modificare gli schemi, cercare compagni di corsa o (se non ci sono) farsi cullare dalla musica, o dalle onde del mare a fianco. E capiterà spesso che durante l’allenamento nascano pensieri, idee, che fondono “un momento di irrinunciabile piacere” con una “estrema concentrazione”. Buona anche, confessa Boldrini nelle sue conclusioni, per scrivere questo libro.
Ma poiché, come scriveva un altro eccellente giornalista-podista quale Daniele Menarini, nessuno siam perfetti, ecco una listerella di piccolezze che, diciamo così, mi piacciono meno (e, come si suol dire nelle recensioni perbene, saranno agevolmente tolte nelle prossime auspicabili tirature). Il libro Andiamo a correre non è di Fulvio Massimi (p. 54) ma Massini. I dipinti di Delaunay del 1924 non si intitolano Les courers (p. 57) ma Les coureurs. Il Volga non è lungo 3.531 metri (p. 74) ma un po’ di più; e per restare tra i fiumi, quello di Berna non si chiama Aere (p. 76) ma Aar / Aare.
Infine, l’illusione che ci facevamo alle prime avvisaglie di Covid, che “l’Europa l’avrebbe svangata” (p. 110), merita il rimprovero dell’attuale presidente della Crusca, Paolo D’Achille, sul sito dell’Accademia: è vero che in rete (e soprattutto nei social) troviamo molti esempi di L’ho svangata! accanto a L’ho sfangata! per dire ‘ce l’ho fatta!’, ‘mi sono tolto d’impaccio!’ e sim., probabilmente dovuti agli scambi tra [f] e [v] che avvengono nel parlato. Ma basterebbe riflettere sullo sviluppo degli usi figurati per comprendere che soltanto sfangare si dovrebbe adoperare con questo significato: superare (spesso a fatica) una situazione di difficoltà è un po’ come uscire dal fango, pulirsi dal fango. La vanga serve invece per scavare e quindi svangare, figuratamente, significa riaprire questioni che si consideravano chiuse, su cui (per usare un’altra metafora) si era messa “una pietra sopra”. Il senso di svangare è dunque quasi l’opposto di quello di sfangare.
Tutto qua: possiamo ben dire che questo bel libro di Boldrini se la sfanga benone.
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