Proibizionismo dei protocolli: non si corre, così non si va in grane?
Ho una domanda che non saprei a chi rivolgere: chi scrive i protocolli?
Ho letto i protocolli di alcune federazioni, oltre a quello della Fidal, e mi sembra che i signori (che sparano regole impossibili da attuare seriamente), non abbiano MAI praticato quegli sport. In pratica mettono in ginocchio tutte, ma proprio tutte le piccole società. Il mio modesto parere è che si sia fatto un passo per dare il colpo di grazia a molti sport, ma soprattutto a molti amatori (di qualunque disciplina). Attualmente c'è in voga un gran "fai da te", non c'è più bisogno di far parte di una società, di un gruppo e tantomeno tesserarsi, a che serve? Insomma, mi piacerebbe sapere chi sono quei signori che scrivono regole senza conoscere lo sport che devono trattare.
Il nostro amico Gabriele Ferrari ci pone in modo intelligente la domanda delle 100 pistole: chi scrive i protocolli della Fidal e di altre federazioni sportive al tempo del coronavirus?
In particolare, ritiene che coloro i quali hanno elaborato “regole impossibili da attuare seriamente” non abbiamo mai praticato i relativi sport.
Sta di fatto che in questo modo si è inferto un colpo quasi mortale al mondo sportivo amatoriale, disincentivandone seriamente la pratica.
Pratica, mi permetto di aggiungere, che rappresenta un presidio di salute, soprattutto in un paese, l’Italia, in cui ogni anno muoiono circa 240.000 persone per le malattie del cuore (ictus e infarto). Un numero che probabilmente tenderà drammaticamente a crescere, dal momento che in questi mesi di emergenza sanitaria la Società italiana di cardiologia segnala un aumento nell’ordine del 30% di persone decedute per tali cause.
Ovviamente, chi scrive i succitati protocolli, a prescindere dal grado di preparazione e competenza specifica, sembra farlo attraverso una visione estremamente ristretta nonché prudenziale. Per lui, come per buona parte dell’establishment di questo paese, pare esistere un solo serio rischio di malattia e di morte: il Covid-19. Tutto deve essere fatto per bloccarne la diffusione, anche se i medici più autorevoli che operano in prima linea ci dicono da molti mesi che il virus è clinicamente quasi estinto, nel senso che la stragrande maggioranza dei nuovi “casi”, così come l’informazione più drammatizzante definisce i contagi, non manifestano alcuna sintomatologia. In tal senso sembra confermata la tesi, basata su una accurata ricerca di laboratorio del professor Clementi - illustre virologo del San Raffaele di Milano - secondo la quale l’ultimo dei coronavirus conosciuti avrebbe imboccato la stessa strada di altri suoi predecessori, adattandosi all’ospite attraverso il fenomeno dell’omoplasia. In pratica, così come dimostrano in maniera evidente i numeri da tempo, Sars-Covid-2 sarebbe già ‘sceso a patti’ con l’uomo.
Ma tutto questo non ha affatto scalfito la tendenza ad adottare il presupposto che sta a monte della cosiddetta “nuova normalità”, con cui giustappunto si continua a paragonare tale virus al bacillo della peste bubbonica. E dunque, al netto di tutta una serie di considerazioni di natura antropologica, impossibili da approfondire nel breve spazio di un articolo, viene da sé che i vari comitati di espertoni tendano a realizzare protocolli attraverso i quali raggiungere l’utopia degli zero-contagi. D’altro canto, se lo stesso contagio equivale alla malattia, che oramai in buona parte dell’immaginario collettivo richiama lo spettro delle sale di rianimazione, l’idea di far praticare lo sport in una sorta di aureo isolamento individuale (per così dire), costituisce la bussola per qualunque cervellone chiamato ad elaborare le nuove regole.
Regole che, vorrei ricordare, non discendono da alcun provvedimento che abbia forza di legge, bensì da tutta una serie di Decreti del Presidente del Consiglio dei ministri, i quali sono semplici atti amministrativi (non sanciti cioè dalla approvazione delle Camere come imporrebbe la Costituzione).
Quindi, in barba alla Costituzione più bella del mondo (almeno così dicono), la Fidal e le altre federazioni, Enti di promozione sportiva inclusi, hanno creato un sistema di regole e di procedure onde impedire al “mostro” invisibile di diffondere tra gli atleti una malattia clinicamente languente. Poi beninteso, come evidenziato più volte dal professor Gattinoni - altro illustre medico che opera in Germania - la composizione pletorica di detti comitati, nei quali ogni membro cerca di inserire una sua proposta, determina protocolli estremamente complessi e con parecchi elementi contraddittori, difficilmente applicabili nella loro interezza.
Il risultato finale di questi guazzabugli, che per noi podisti hanno raggiunto l’apoteosi con la demenziale misura, recentemente reiterata dalla Fidal, di farci correre almeno per i primi 500 metri di gara (se si è in più di 50) con la mascherina, è una sostanziale paralisi a tempo indeterminato delle competizioni sportive di massa. Poiché, come suggerisce Fabio Marri, tutti cercano di pararsi il didietro dalle eventuali conseguenze di un semplice contagio; e nessuno si assume la responsabilità di adottare una sorta di disobbedienza civile, almeno per ciò che concerne le misure più demenziali concepite per la “nuova” normalità sportiva. In questo senso anche nello sport il terrore di essere tacciati di fiancheggiare il virus risulta da tempo assai superiore di quello di prendersi il contagio medesimo.