Invito a tante letture sportive, nuove e antiche
D’estate, i giornali si riempiono di inviti a letture “sotto l’ombrellone”, in genere cose frivole, romanzetti giallorosa o biografie di gente dello spettacolo, magari associate al metodo seguito dalla tale per dimagrire o vincere la dipendenza dall’alcol; è ancora più forte il richiamo dei periodici di gossip, per sapere con chi sta quella là o su quale tv andrà in onda da settembre il tale spettacolo di varietà, come sempre “imperdibile” (aggettivo che di solito contrassegna le cose che invece si possono perdere, con grande vantaggio del perditore).
Sul terreno degli sport che qui ci interessano di più, non può mancare l’ennesimo manuale che ti insegna ad allenarti, con parole riciclate da mezzo secolo delle quali si promette la messa in pratica in qualche summer camp, ovviamente accompagnato da escursioni turistiche nella natura “incontaminata” (dove è mai la natura incontaminata? nemmeno in Antartide, e certo nemmeno sulle Dolomiti o sulla costiera amalfitana; ma l’aggettivo piace) e cibi “a chilometro zero”, magari pane fatto in casa col grano che arriva da Odessa, e insaccati casalinghi da carne suina ungherese.
Insomma, d’estate le balle si moltiplicano, e allora viene il desiderio di irrobustirsi piuttosto lo spirito con letture, sportive e atletiche sì, ma “sode”, che ti lascino qualcosa. Senza pretendere che la cosa faccia lo stesso effetto su tutti, e garantendo che non scrivo per tornaconto personale o sociale (insomma, non c’è un banner da acquisire e far digerire), a me è capitato mettendo gli occhi su una nuova rivista, uscita nella primavera di quest’anno presso l’editore Fabrizio Serra di Pisa e Roma (www.libraweb.net), specializzato in testi accademici, alcuni anche piuttosto pesanti per il lettore medio. Ed accademica si presenta anche questa “Rivista internazionale di Letteratura” che nell’austera copertina verdognola porta il titolo Scritture e linguaggi dello sport, circa 150 pagine piuttosto fitte, nessuna illustrazione ma tante note a piè pagina e rimandi bibliografici da far girare la testa.
La responsabilità della rivista è affidata a tre “eccellenze” (per usare un’altra frase fatta della pubblicistica odierna, che mette insieme cibi, architetti, cuochi - pardon, chef stellati - e marchi di fabbrica dal passato glorioso e dal futuro incerto): il direttore Alberto Brambilla da Busto Arsizio (località dove si tenne la prima “maratona popolare” alias tapasciada d’invernu, a fine 1971), nulla a che vedere con l’ex marito della Pivetti, trattandosi invece di un docente alla Sorbona di Parigi, già da tempo impegnato nella critica sportiva, e fondatore della rivista “L’Arcimatto. Quaderni per Gianni Brera”; e i vicedirettori Gilberto Lonardi (docente a Verona, il primo che negli anni Settanta osò introdurre un capitolo su Brera in un austero dizionario critico di letteratura italiana) e William Spaggiari, geograficamente uno dei nostri, essendo partito da Novellara per insegnare alla Statale di Milano, e che fra le tante sue passioni coltiva quella dello sport (fu pure dirigente della squadra di basket della sua cittadina). Se poi, nella redazione, vediamo anche il nome di Sergio Giuntini, direttore della Società italiana di storia dello sport, e autore, fra l’altro, di una storia dell’atletica leggera (2017), capiamo che questa rivista è la chiave giusta per introdurci nella stanza dello sport praticato, raccontato e anche fantasticato.
Spetta a Brambilla l’articolo di apertura, per una “mappa” delle scritture sportive dalla ripresa olimpica del 1896 in poi: Olimpiadi 1896, risultate decisive anche per lo sport che ci coinvolge di più, con l’ “invenzione” della maratona. Alla quale (lasciando stare per ora la serie di articoli e libri uscita per l’impresa di Dorando Pietri), dopo le olimpiadi di Anversa del 1920 fu dedicato un primo romanzo di invenzione, ma solidamente ancorato alla realtà sportiva venendo da Nino Salvaneschi (pavese, capo ufficio stampa del CONI, e fondatore nel 1912 del “Guerin sportivo”): Il vincitore della Maratona, ispirato alla figura reale di Valerio Arri (che nella maratona olimpica fu in realtà terzo in 2.36). Nel romanzo invece il protagonista, arrivato in Belgio con salda fede anarchica, vince la gara superando allo sprint il capofila inglese, mentre la folla ironizza al grido di “Macaronì”, e alla premiazione, salutando il tricolore issato sul pennone più alto, il campione tra le lacrime si converte al patriottismo. I dettagli vengono dall’altro articolo, questa volta di Giuntini, dedicato in particolare allo “scrivere di atletica”: e a questo attingo ora, senza tacere che Brambilla prosegue con una impressionante rassegna di scritti sugli sport venuti nel frattempo alla ribalta, boxe, ciclismo, calcio e discipline motoristiche.
Giuntini nota preliminarmente che in casa nostra, a parte la “ridondante” manualistica tecnica, e i tanti libri autobiografici scritti o meglio firmati da atleti, non ci sono stati capolavori come certuni nati all’estero (tipo La solitudine del maratoneta di Sillitoe, L’arte di correre di Murakami Haruki, Born to run di Mc Dougall ecc.). Eppure, la corsa a piedi cominciò a insinuarsi nella letteratura “alta” almeno nel 1857, quando il milanese Giuseppe Rovani, nel romanzo-fiume Cento anni introduce un tal Andrea Suardi, professione lacchè, vincitore di una specie di campionato regionale di corsa e subito ingaggiato da un nobile napoletano.
Si passa al Novecento, quando il fondatore del futurismo, Marinetti, entusiasmato da una 10 km sui bastioni di Milano, si lasciò andare a una professione di fede “nella bontà fatta dalla potenza dei muscoli e dalla luce dell’ideale”. Eravamo nel 1911, e salendo al 1920 delle Olimpiadi di Anversa, ecco apparire la riflessione di Ettore De Zuani su L’ultimo maratoneta, che ancora non arrivato si è tolto le scarpe e si guarda i piedi lividi, pensando ai tremila km a piedi che l’aspettano per rientrare in patria (forse c’è il ricordo del maratoneta Ajroldi che aveva raggiunto Atene a piedi nel 1896, ma solo per essere respinto dagli organizzatori in quanto accusato di professionismo).
Venne poi il 1960 di Roma, quando uscì sotto il nome di Giovanni Floris (nulla a che vedere con l’imberbe telegiornalista talkshower e perfino romanziere) il poemetto La maratona – Da un diario apocrifo di Dorando Pietri: “La maratona è roba da poveri – come il Regno dei Cieli. – Non conta come si viaggia – ma come si taglia il traguardo”. Anche Pasolini, sgomento per la trasformazione dello sport in spettacolo, affermò di prediligere la “disperata e drammatica” maratona. Qualcosa del genere scappò pure a Eugenio Montale: “Non credo che guadagnino soldi quei poveracci dei maratoneti, come Zatopek… Sono buoni diavoli e mi hanno sempre suscitato simpatia”. Un altro poeta, meno celebrato ma più vicino al mondo dello sport, Giuseppe Brunamontini, intorno agli anni Ottanta si commuoveva per quel “martire” del maratoneta “dal passo di stambecco disperato – sulle strade consolari”, e confessava il suo stupore nel veder passare “improvvisamente, incredibilmente … in souplesse due maratoneti” in piazza Navona, tra gruppi “di scippatori imberbi – di drogati di pederasti – di turisti innocenti”. Di Brunamontini fu premiato dal CONI nel 1967 anche il racconto Il cielo sulle tribune, storia di un operaio che si riscatta vincendo un diecimila.
Invece Nicola Ghiglione, nella poesia Maratona, il podista, in limpidi endecasillabi scandisce: “Il podista cammina sulle spalle – ha il tempo da millenni calcolato. – Non ha terra che tocchi al solo volo, - il piede ferma la dimensione unica”. Mentre Mauro Covacich, alquanto sopravvalutato e persino imitato come romanziere per il suo A perdifiato del 2003, in una poesia Maratonina pensava al dopo: “Già vedo il piede sul bidè – e l’ago bruciato nelle vesciche – vita di virtuali fatiche” (bè, se le fatiche sono virtuali, non producono vesciche: “mangiatemi pure con gli occhi, che briciole non ne faremo”, diceva Santuzza a Turiddu).
Forse tra le più sentite sono le poesie ispirate a Bikila dopo la sua morte nel 1973: Aldo G.B. Rossi ricordava che: “A piedi nudi su ali di gloria – riscattasti la tua negritudine – con spasmi e bava di fiele”. E speriamo che nessun cultore sciocco della correttezza politica abbia a ridire su negritudine, che Rossi fa propria solo per mostrarne l’ingiustizia; nè se la prenda con Marco Venturoli, che nella poesia Bikila ricorda come “il suo viso nero – s’affacciò sui giornali – come uno Zorro sorridente”, e dopo aver tagliato il traguardo di Roma continuò a correre, “come sugli altipiani – per ringraziare i genitori – del dono dei garretti – l’antilope braccata – che gli insegnò la lunga fuga”.
Il nostro Bikila di Seul, Gelindo Bordin, l’anno dopo del trionfo (1989) ha pure scritto un romanzo, L’anello rosso, nel quale un ipotetico maratoneta del prossimo millennio riuscirà a vincere senza valersi del doping; mentre Giulio Mozzi, nel romanzo Corsa del 1995, parla di un Michele che schifato dalle corsette ridotte a “sagre con banchetti di ristoro ogni cinquecento metri”, e il salamino o la bottiglia come premio, preferisce correre da solo, la domenica mattina. Del tutto trascurabile la biografia romanzata di Dorando Pietri scritta da Giuseppe Pederiali approfittando delle celebrazioni centenarie del 2008; eppure, Il sogno del maratoneta fu la base della fiction Rai del 2012, un fumettone dove l’unica cosa a interessare il pubblico (share sotto il 15%) erano le tettine di Laura Chiatti, concesse alternativamente a chi vinceva una gara, tra Pietri e il suo rivale. Che si chiamava, incredibilmente, Barbolini: chissà se per un omaggio ruffiano a chi, riscoprendo Dorando (e promuovendo pubblicazioni su di lui molto più serie, come Dorando Pietri. La corsa del secolo di Augusto Frasca) aveva spianato la strada agli appetiti commerciali altrui, rimettendoci, alla fine, la salute.
Ultimissimo testo di cui scrive Giuntini è un romanzo del 2019, Il guardiano della collina dei ciliegi di Franco Faggiani: storia di un maratoneta giapponese inviato ai giochi di Stoccolma del 1912, che a 7 km dal traguardo sparì nel nulla. Tornò in patria molto dopo, e in incognito divenne appunto guardiano della collina, ritrovando la sua armonia interiore.
Fin qui, i libri che ci riguardano maggiormente, e che ne fanno venire in mente altri, messi da parte in un certo scaffale nell’attesa di leggerli o di finirli (ho un debito morale, ad esempio, con “Sigi”, Simone Grassi, che nell’estate di dieci anni fa mi diede il suo Lo zen, la corsa e l’arte di vivere con il cancro, e se ne andò pochi mesi dopo, nel febbraio 2013). Ma intanto, non posso congedarmi dal fascicolo da cui ho cominciato senza raccomandare la lettura di uno degli ultimi contributi, finalmente una recensione dove non si annuncia genuflessi e conniventi il nuovo Manzoni o Tolstoi o Proust (come si fa invece ogni settimana sui supplementi mondano-letterari del Corriere della sera), e piuttosto, come diceva Foscolo, si sfrondano gli allori di quanti sfornano il loro romanzetto mensile o – appunto come si diceva sopra - da ombrellone.
Questo godibilissimo saggio di una quindicina di pagine è dovuto a un critico e docente universitario parmigiano, Paolo Briganti, che fino a un brutto incidente faceva il rugbista, mediano di mischia in serie B, e da quando ha compiuto 70 anni gareggia nell’altro suo amore sportivo, il nuoto (un mese fa è arrivato 4° ai campionati italiani master di Riccione nei 100 rana). Proprio le sue competenze di rugby, confrontate con le improvvisazioni dilettantesche (o per dir meglio, professionali, nel senso commerciale del termine) di un venerato maestro letterario, l’hanno costretto a cantare chiaro in Baricco e il rugby. Spettacolo, straniamento e ‘cuore’ delle cose, a proposito di due “cronache” di rugby, poi immancabilmente raccolte in volume, che fin dai titoli All Blacks: la ballata del rugby e La danza violenta del rugby dimostrano approssimazione e voglia di stupire, senza badare troppo alla veridicità. Dunque, poco importa se si confonde Tolone con Tolosa, se si definisce “pilastro” quello che tecnicamente è un pilone, se si cita a sproposito Franco Califano, se la cronaca riesce a sbagliare il risultato (23-7 anziché 23-12) perché il cronista, comodamente accoccolato sulla panchina azzurra, si perde una meta; e rompe anche le scatole ai giocatori come testimonierà uno di loro, Matteo Mazzantini, cui toccò persino la sgridata di un alto dirigente federale: “Non sai chi era quello? – Era un rompic** - Ma quale rompic**, quello è Alessandro Baricco! Il coglione sei tu!”.
Per compensare i giocatori della rottura, alla fine del suo articolo Baricco esalterà il loro “cuore e marroni” (“che poi maroni con una sola erre sarebbe stato più efficace”, osserva Briganti), notando come gli azzurri, sconfitti, “escono dal campo con gli inglesi che li applaudono”, cioè col cosiddetto onore delle armi. Senza sapere che accade così in tutte le partite di rugby; ma d’altronde, da un pianista che non è mai disceso a terra dall’oceano, non si può pretendere troppo.
1 commento
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Martedì, 02 Agosto 2022 20:46
inviato da Giancarlo Mendogni
Fabio Marri, che piacere leggere di te. Ricordando i nostri trascorsi con il fischietto su campi di calcio
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