Samedan (CH) – 33° Swissalpine Marathon – T 43 “allegra”?
21 luglio - Podisti.Net era nato da pochi giorni, e diciannove anni fa andai per la prima volta a Davos per correre la Swissalpine. Me l’aveva raccomandata un meraviglioso ingegnere bolognese, che anzi mi portò lassù con la sua auto, una Volvo che faticava alquanto in salita, ma arrivava comunque.
Da principiante, quell’anno corsi “solo” la maratona, mentre l’Ingegnere, un anziano alpinista e dirigente del CAI, si cimentò come sempre nella mitica 78 km. Dall’anno dopo, mi buttai anch’io nella K 78, e ci portai tanti amici nel corso del tempo. Tutti ne tornarono entusiasti, e fin dal primo momento giocai la mia credibilità mettendo Davos al primo posto delle corse che uno non può perdere, a pari merito con un’altra corsa, sperimentata dal 2000: la Jungfrau Marathon di Interlaken. Così ne scrissi.
31-7-1999
Davos, 31 luglio: la fine del mondo
Prima di morire, tutti devono andare a Davos, alla Swissalpine Marathon: non è necessario fare i 78 km del percorso intero, che pure hanno attratto anche quest’anno più di mille partenti; ma “basta” una maratona di 42 (altri 900 partenti), con due cime di 2600 metri da scalare dopo la partenza dai 1350 metri e prima dell’arrivo (a Davos appunto) a quasi 1600. E c’è anche la maratona a staffetta (3 componenti), e la 30 km quasi pianeggiante, oltre alle gare per bambini. Panorami da togliere il respiro, organizzazione perfetta (incluso il servizio ferroviario gratuito per i vari punti di partenza e per il ritorno), tifo incredibile -anche in alta quota - anche i pastori!-, classifiche esposte meno di mezz’ora dopo l’arrivo di ciascuno. Una delle cose più incredibili è che tra gli organizzatori ci sono le Ferrovie retiche e le Poste: ve l’immaginate voi, in Italia? Neanche su quella rivista patinata, dove un paio di mesi fa è stato scritto che una maratona in Svizzera bisogna programmarla un anno prima, vorranno credere che si accettavano iscrizioni anche la mattina della partenza.
Da andarci assolutamente. Dicono che meglio ci sia solo la maratona della Jungfrau, guarda caso sempre svizzera.
Da quel momento e per ora, nella personale classifica di partecipazioni Davos batte Interlaken 9 a 7: ci sarei andato molto più spesso (all’inizio di ogni anno, sono i due primi nomi a essere scritti nell’agenda dei desiderata), ma i casi della vita costringono talvolta a prendere decisioni diverse, e spesso la curiosità per lunghissimi di montagna organizzati in Italia mi ha spinto a restare in madrepatria.
Ma perché più a Davos che a Interlaken (sinonimo di perfezione assoluta)? Perché a Davos c’è una abbondanza di scelte, dapprima tra 78 e 42 km, poi con l’aggiunta di altre 42 disputate in contemporanea su percorsi diversi (volta a volta chiamate K 42, C 42, S 42, L 42 ecc.), e una 30, e una 21, e una staffetta ecc. ecc. Negli ultimi anni, pure una 214 e una 133, che non mi sogno certo di fare, perché vorrei correre per divertirmi e non per aggiungermi una medaglia su un petto da gerarca sovietico antico.
Avrei voluto correre per l’ultima volta la K 78: ma quest’anno è stata soppressa, forse perché i 455 finisher del 2017 sono stati ritenuti troppo pochi. Al suo posto, c’è (ci sarà) una 88 km, con dislivello molto accresciuto e la partenza da San Moritz; e, se non bastasse , una 127 con partenza da Samedan. Tutte assegneranno punti per l’UTMB (anch’io, senza cercarli, qui ne ho fatti 3): ma non vorrei che questa rincorsa crescente alle difficoltà, all’allungamento, al sovrumano, restringesse i partecipanti a una élite sceltissima (quella che poi, come dice Mainini senior da Reggio Emilia, dopo cinque anni smette con i menischi consumati e i legamenti a pezzi), lasciando a casa i podisti normali. A Davos e Interlaken ho sempre corso con le scarpette da asfalto, come tutti i mei amici, senza problemi. Adesso sta diventando impossibile.
Ma anche i numeri di una volta stanno diventando una chimera per gli organizzatori, e forse qui sta una causa della rincorsa ai cambiamenti: intanto, questa T 43, dichiarata in due diverse pagine del sito di 42,9 ovvero di 43,5 km, con 2574 metri di dislivello, è stata conclusa da appena 109 persone (+ 11 ritirati). L’equivalente del 2017, la L 43, aveva visto al traguardo 134 podisti. D’accordo, questo era chiamato “prologo”, in sostanza un collaudo pionieristico del percorso che costituirà la prima metà della K 88 prevista la prossima settimana; ma non so quanto convenga, a chi allestisce, il mettere in piedi una macchina che in questo penultimo sabato di luglio ha convogliato in zona (tenendo conto anche dei percorsi minori di 29 e 16 km) solo 250 sportivi. Nemmeno il gradimento dei podisti è come una volta: se nel 2017 il consueto referendum tedesco ha messo Interlaken al secondo posto assoluto (dopo il Rennsteig di Eisenach, la “Davos tedesca”), la Davos svizzera è scivolata al 53° posto, solo settima tra le 20 elvetiche votate.
Ci sono andato, ripeto, per nostalgia e per curiosità: il nuovo tracciato mi mancava, non ero mai stato in questi posti (di Davos si sente solo il nome e il profumo, ma non lo vediamo mai nemmeno dall’alto delle due cime principali che dobbiamo salire), il nome di Samedan (accento sulla E, o se volute dirlo alla ladina Samàden) è già noto agli appassionati per la 25 km di mezzo agosto: insomma, ci sono le garanzie per essere soddisfatti.
A dire la verità, dalle istruzioni si poteva dedurre qualche avvisaglia che non tutto sarebbe stato come al solito (a parte i costi di iscrizione, al livello o quasi delle gare maggiori, vale a dire fino a 127 euro compresa la cresta del mediatore di iscrizioni: però coi tradizionali benefit, come il transito gratuito per una settimana su tutti i treni svizzeri): tre ristori segnalati in tutto su 43 km, cui veniva assegnato un tmax di 10 ore (segno che non si trattava di una banalissima, atleticamente parlando, maratona di Roma o New York), e in questi ristori l’unico nutrimento solido garantito erano le banane; la sola bevanda calda era data come disponibile al km 30. Eppure, i materiali obbligatori (in realtà, mai controllati) erano esclusivamente un impermeabile e una borraccia d’acqua: nessuna richiesta di barrette o frutta secca o simili.
Comunque, si parte, a un orario comodo (le 10, poi divenute per strani motivi le 10,08) anche per chi arrivasse in giornata senza spendere per alberghi. Il meteo (che in Svizzera è il più preciso d’Europa) prometteva deboli piogge a partire dalle 11, con possibili rovesci pomeridiani e miglioramento in serata; temperatura mai superiore ai 12 gradi, e di 6 gradi o meno alle vette più alte (una quota 2500 al km 9 e un 2600 abbondante verso il km 35, con partenza e arrivo a 1700).
I primi 6 km sono deliziosi, si arriva a un alpeggio-ristorante attraverso una comoda stradina percorsa da ciclisti. Dentro l’alpeggio si mangia, ma (è il primo avviso di cosa ci capiterà nel resto della gara) fuori non c’è niente per noi, salvo un rubinetto da cui fuoriesce un getto d’acqua fortissimo (quelli che servono per lavare dal fango le bici: foto 10-11), difficilmente bevibile.
http://foto.podisti.net/p206883660
Ma quasi nessuno ha sete, il cielo si è già coperto, qualche gocciola comincia a serpeggiare; e ci prende la bellezza del panorama, tanto che sostiamo spesso e volentieri a fotografarci reciprocamente: la bella americana di Denver Desiree, la coppia israeliana Nir e Adi, il giapponese Katsumasa… (foto 14, 16), la tedesca Birgit (foto 23, redattrice della testata tedesca Marathon4you.de, e già più volte alla Swissalpine): ma ancora lunedì sera il suo resoconto non appare, ci sono solo le foto:
https://www.marathon4you.de/laufberichte/swissalpine-prolog/bilder-vom-swissalpine-prolog-t43/3685
Almeno per i primi 30 km sarà un continuo rincorrerci e un chiedere “do you can make me a picture?”, “bitte kannst du mir eine photo maken?”.
Lasciamo pure che i primi guardino il cronometro (l’arrivo sarà quasi allo sprint tra due svizzeri, Bernhard Eggenschwiller dell’85 e il ticinese Gabriele Sboarina, dalla chiara origine veneta, del ’90, in 4 ore e tre quarti; tra le donne, vince in 5h 34 la 39enne svizzera Nina Brenn); noi siamo qui per riempirci gli occhi e i polmoni, e farci un po’ di compagnia vista l’assenza quasi totale di addetti sul percorso (i più numerosi sono i fotografi) e la scarsità di bandelle segnaletiche (quelle ad esempio delle foto 34 e 35). A un certo punto, per vincere il perpetuo timore che mi assale se non vedo segnali, misuro la distanza che c’è tra l’uno e l’altro: sono mediamente 650 metri, decisamente troppi.
Se non altro, le frecce (foto 28) sono ben visibili, ma per l’attraversamento di S. Moritz, tra il km 16 e il 19 (la negazione del trail), bisogna stare davvero attenti. E quando la settimana dopo si correrà parzialmente in notturna, se non decuplicano almeno gli addetti sul percorso rischiano di dover poi ricorrere ai cani molecolari per recuperare gli atleti nei boschi…
I colleghi (partiti un’ora dopo) dei 16 km si staccano sulla sinistra, godendo la loro buona dose di panorami (foto 46-49); noi puntiamo invece sulla perla dell’Engadina, però… il ristoro di S. Moritz è davvero indegno: sotto la pioggia, un bugigattolo 2x2, con un tavolino che offre acqua ormai tiepida (“da doccia, non da bere!”, dico all’addetto), tè freddo e banane. Poco di meglio troveremo al successivo ristoro di Pontresina, dopo altri 14 km (sotto un portichetto, area di metri 3x1,50: foto 21, con Birgit infreddolita, e 22 dove l’addetta non ha voluto apparire in foto: peccato perché era carina): c’è brodo vegetale caldo. Mentre all’ultima Verpflegung del km 38 ritroveremo le solite banane e l’acqua (stavolta inutilmente fredda: stiamo gelando da soli, a quota 2500).
Da S. Moritz si era ripartiti con uno zigzag molto asfaltato (rotatorie comprese) che tra dubbi segnaletici ci portava al casinò e all’hotel Kempinski, poi finalmente per un bel sentiero in moderata salita verso il Lei dals Chods (lago dei polli: chi vuol familiarizzare colla lingua grigionese, piuttosto somigliante al dialetto bolognese, cominci col tradurre i messaggi delle foto 51 e 52; cosa dica il cartello della foto 53 lo capiranno anche i fratelli Elkann e il cane di Vujadin Boskov). Qui al lago c’è un altro rifugio (foto 17, 18), ma neanche un pollo, né vivo né arrosto: l’unica anima viva dopo un tornantino è un fotografo, che mi richiama mentre sto cercando di entrare: dàinter an gh’ai nciàun (o circa…), non c’è nessuno.
Sarà la nostra sorte, come anticipato, pure negli altri due rifugi da cui passeremo (foto 25, 33): bui, sbarrati, nessun addetto, niente da mangiare e nemmeno da bere (neanche una fontanella). Pure il palasport di Pontresina (sul cui frontone campeggia la scritta “Langlauf”, cioè corsa lunga) per noi è muto.
Se dite che era previsto, ebbene sì; se dite che in 127 euro (purtroppo, la nostra moneta è scesa in picchiata rispetto al cambio 2 E = 3 Chf dei bei tempi) potevano starci anche due tavolini con un thermos di tè caldo… ebbene pure. E al km 38, dopo l’ultima salita (foto 39-40), ecco l’ultima banana di cui ho detto, da mandar giù con acqua fresca.
Controlli: un solo tappetino chip al km 16, mentre al 30 un tizio si limita a spuntare il nostro nome sul suo pc, senza prenderci il tempo (per me, lì sono 6 ore esatte): come si è visto, raggiungo Birgit, che mi farà in un certo senso da scorta nella salita bellissima ma durissima (non si chiama Muragl per caso), e altrimenti solitaria, di 800 metri verticali in 5 km tra i paravalanghe: la nostra ‘velocità’ raggiungerà i 26 minuti a km, e ogni tanto guarderò in basso per individuare, sullo sfondo di Pontresina, segnali di vita (foto 29-30-31).
Da qualche cartello escursionistico (foto 27-28) mi sembra di capire che al nostro prossimo rifugio di Muottas Muragl arriveremmo, senza salire in cima, anche per un’altra stradetta, percorribile di passo lento in 1h 45: ma… se ci fosse un controllo? Invece non c’è niente, i truffatori italici di cui parlano le cronache possono attrezzarsi, che qui c’è esca per le loro ambizioni. Invece quella brava gente di Birgit, Nir, Katsumasa, e perfino un Thomas Hunziker sguissero del 1983, se la fanno tutta senza sconti: il Gps di Birgit alla fine darà 43,100, anche se io penso che con tutte quelle nuvole spesso avremo perso i segnale, e che in una salita o discesa verticale a tornanti è difficile che il Gps ti misuri tutte le giravolte.
Ma in ogni favola c’è un lieto fine, quando sulle panchine per turisti affannati comincia ad apparire la consolante scritta “Samedan”, e a noi che scendiamo si presenta la visione prima dell’aeroporto (foto 41-42), poi dei prati adiacenti, e più lontano del campanile (chiesa protestante rigorosamente chiusa, malgrado il cartello dia degli orari di apertura): ma dove sarà il campo del futball (bala-pé in grigionese)? Per rinforzo mentale si abbozza un conto alla rovescia: saranno 3 km? Adesso due? La pista dell’aeroporto sarà 800 metri? La partenza-arrivo è 500 metri sotto il campanile, dunque non può mancare più di un km…
Incrociamo ciclisti che ci urlano “Bravo, es ist geschafft!” (ce l’hai fatta); comincia l’asfalto, ecco il palasport dopo l’ultima curva a destra (foto 43): suona il chip, Gratulationen! Ti mettono al collo la medaglia d’acciaio, infatti con scritta “Irontrail”, ti danno la maglietta da finisher, e restiamo ad attendere i compagni di cammino e di foto: Birgit dopo 10 minuti, Nir dopo 13, Hunziker dopo 16. Ci abbracciamo (“oh my friend blowing in the wind! Lebst du noch?”), ci accomodiamo al pasta party (foto 45), dove il ragù è esaurito e suggeriscono di condire i fusilli col brodo e tanto formaggio. Sembra che la birra sia esaurita essa pure, ma ne portano un bel cartone; mentre ci rifocilliamo, un’oretta dopo, arrivano Chonh Yu e Katsumasa.
Per dirla in lingua grigionese, “Allegra!”.
Chissà se ci rivedremo.
1 commento
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Martedì, 24 Luglio 2018 14:28
inviato da Andrea Morisi
Carissimo Prof. Marri, complimenti e grazie per il ricordo di quello straordinario personaggio che era mio babbo Antonino.
Grazie davvero. Mi pare quasi di vederlo annuire e sorridere mentre legge il tuo reportage. E magari sognare di ritornarci, prima o poi, tra quelle stupende montagne...
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