Pianoro (BO), 47a Galaverna, una classica per tutti
È un gran dire che il podismo è in calo, che alle camminate vengono soprattutto i vecchi, che ormai all’ora giusta, dalle parti di Bologna, non parte più nessuno… Poi uno va a Pianoro, 15 km a monte di Bologna, su per la vecchia e inadeguata Futa (mentre i treni sfrecciano indisturbati sulla Direttissima), per correre o camminare la “Galaverna”, trova un parcheggio dubbio (valgono anche la domenica i divieti di sosta davanti ai cancelli delle fabbriche?) a 800 metri dalla partenza (ma tanti si fermano sulla statale, a un chilometro abbondante dal parco in cui è da vari anni collocato il centro gara); e arrivato alla partenza quasi in extremis, sotto un cielo imbronciato che a metà gara lascerà cadere perfino un delizioso nevischio, vede una fila lunga un centinaio di metri davanti alla distribuzione dei pettorali non prenotati, mentre quasi tutte le società hanno già esaurito il proprio contingente (per fortuna io trovo ospitalità presso i ‘dissidenti’ della Porta Saragozza, quelli ‘cancellati’ dal Coordinamento bolognese perché osano chiedere il rispetto delle regole più elementari di buona convivenza podistica).
Si parte, con larga tolleranza sull’orario (cioè anche un quarto d’ora e più in ritardo), in salita, e almeno fino al primo bivio del podere Riosto (quello da dove ha origine la famiglia Ariosto, e dove oggi la linea Alta velocità si stacca dalla Direttissima per immergersi nella sua galleria lunga quasi fino a Firenze), cioè per i primi 3,5 km, la strada è occupata da migliaia di corridori e soprattutto camminatori, moltissime donne, molti bambini e gruppi scolastici, con pettorine stile sci numerate ben oltre 4000 (il record di partecipanti del 2017, 4449, deve aver traballato). Molti recano la maglietta, quest’anno blu, dedicata ad Alice Gruppioni, la pianorese neo-sposa uccisa da un pirata della strada nel 2013 a Lo Angeles durante il viaggio di nozze: e si convince che il podismo, finché sarà messo in pratica da corse come questa, non morirà mai.
Non voglio negare che una parte dell’attrattiva della “Galaverna” dipenda anche dal ristoro, per il quale si parla di costine, salsicce alla brace, polenta e nutella, vin-brulé, caldarroste: dico “si parla”, perché ai miei passaggi dai cinque ristori (2 ore e mezzo per fare i 20,700 del percorso più lungo, con 550 metri di dislivello e circa 5 km sterrati), rimangono solo acqua, tè, arance, banane e biscotti (e non lamentiamoci, per 2 euro di iscrizione!). Al traguardo (intendo, quasi a mezzogiorno), dei panini alla salsiccia sono rimasti solo i panini, e fette di piadina che vengono servite per chiudere almeno temporaneamente la bocca a chi sta aspettando i maccheroni al ragù, le cui pentolate arrivano a scaglioni. Anche il vino, un buon rosso dolce, finisce (ma ammetto che due bicchieri me li sorbisco); mentre tè, acqua, dolci e frutta, oltre al sacchetto di biscotti salati particolari del premio di partecipazione, resteranno ancora a tre ore e mezzo dal via, quando parecchie decine di camminatori continuano ad arrivare e il tradizionale gran fuoco si leva sempre alto nella zona ristori.
D’accordo dunque, ci sarà l’attrattiva della magnazza, ma non basta a spiegare il successo della manifestazione, una delle più antiche d’Italia (ricordo quei grigi giorni del gennaio 1973, quando venni all’ospedale militare di Bologna per la visita di leva, e percorrendo via Indipendenza trovai uno striscione teso in zona stazione, che annunciava la prima Galaverna, e io mi chiedevo cosa fosse).
Quell’anno la saltai (all’ospedale militare mi beccai pure l’influenza), ma poi, con questa ho finito per correrne 12, sempre sul tracciato più lungo che arrivava a 21.5, ora è leggermente cambiato ma conserva i suoi tre colli tradizionali, sui 350 metri di altitudine dopo una partenza a 180 metri, verso i km 3.5, 7.5, 13.5 circa, e infine l’ultima vigliaccata della salita sopra la ferrovia, quantificata in 30 metri verticali dal km 19.5.
Purtroppo gli inverni sono più tiepidi che quando si cominciò, di galaverna sugli alberi non ce n’è, e nemmeno quella neve ghiacciata nella prima discesa verso il km 5, mentre è stato soppresso l’altro tratto, tradizionalmente coperto di ghiaccio, dopo la chiesa di Guzzano intorno al km 15 (una discesa di 110 metri in un km solo, più altri 60 nei due km seguenti), che ci lasciava l’alternativa se scendere col didietro o tenerci stretti agli alberelli. Stavolta si viene giù per uno stradello asfaltato, salvo risalire un po’ verso il km 17 per una carraia fangosa, ma a una quota decisamente più bassa, fino a sfociare nella statale, traversando poi il Savena per entrare nella zona industriale di Pian di Macina, dove sta il nostro quinto ristoro (quello della teorica polenta e nutella): prima della salitaccia finale e del reingresso nel parco da dove siamo partiti.
Tantissima gente dunque, malgrado la concorrenza di Monteforte d’Alpone che in un certo senso somiglia a Pianoro, anche per le sbafate e bevute alcooliche (ma a prezzi ben più consistenti): gente che è rimasta a lungo a commentare, e piluccare i ristori, per non perdersi niente di questa magica atmosfera che commemora Alice nel modo migliore.
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