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Feb 02, 2018 5059volte

Miami, will you marry me? The answer is blowing in the wind

Ore 6, verso la partenza Ore 6, verso la partenza Daniela Gianaroli

Miami, la città più meridionale degli Usa (non a caso, scelta come luogo d’esilio da 125mila profughi cubani, che hanno ricostruito una “piccola Avana” nel settore ovest della città), ha perlomeno quattro volti: 1- una Downtown che conta forse più grattacieli di Manhattan, toccati da tre linee di metropolitana sopraelevata e gratuita (Metro Mover) più un’altra linea, il Metro Rail, diciamo nello stile della S-Bahn di Berlino, a modico pagamento (l’equivalente di € 1,50 a corsa, 4 euro per un giorno intero); 2- la favolosa Miami Beach, isola nello stile di Venezia, congiunta da più ponti alla terraferma, e con una spiaggia bianca di 10 o più km affacciata sull’Atlantico, dove l’auto più comune è la Ferrari e i frequentatori vanno da Simona Ventura a Trussardi/Hunziker ecc., non più Versace (ma l’accesso alla spiaggia è gratuito, e puoi anche girare sui Trolley bus, gratuiti essi pure); temperatura attuale dell’acqua come a Rimini a inizio luglio, mentre l’aria oscilla tra i 21 e i 26 gradi; 3 – i quartieri a sud, raggiunti dal Metro Rail, molto verdi, con ottime soluzioni urbanistiche (mitica è la zona di Vizcaya e Coral Gables), case a uno o due piani annegate tra la vegetazione: volendo, si prosegue in auto verso sud fino all’estrema punta della Florida, Key West, dove abitava Hemingway; 4- la citata Little Havana, pienamente latina, con osterie, musica, movida, rivendite di sigari cubani e nicaraguensi (quelli economici costano 6-8 dollari l’uno), traffico di auto e smog, piena di distributori di benzina a prezzi ridicoli (faccio rifornimento per l’equivalente di 50 eurocent al litro).

In più, il 28 gennaio c’è la maratona, una delle tante organizzate in Florida (solo nel weekend precedente ce n’erano una a Tampa e una a Orlando, cioè Disneyworld; a breve se ne svolgerà una nelle vicinissime Bermuda e una 'spaziale' nei pressi di Cape Canaveral): gara che è sempre considerata a rischio, perché in Florida si concentra la metà di tutti gli uragani statunitensi, e infatti, delle 20 edizioni finora programmate, questa è la 16^ che arriva al termine (negli ultimi anni una fu annullata del tutto, una ridotta alla mezza, e l’anno scorso si corse sotto una pioggia torrenziale con 7 gradi). Le previsioni del tempo danno un peggioramento giusto per mezzogiorno di domenica 28, con 50% di probabilità di pioggia, e certezza di venti forti da ovest: la partenza della gara è fissata a scaglioni tra le 5,50 e le 7 di mattina, dunque si dovrebbe arrivare in tempo, come in effetti sarà: nessuno si bagnerà, mentre il vento fino a 40 km/h sarà una costante della gara, purtroppo più contro che a favore (e vallo a spiegare a chi non c’era, come mai il vento spirasse soprattutto contro… diciamo che sui tre ponti percorsi tra Miami e Miami Beach, in un tracciato fatto un po’ a 8, si rischiava anche di cadere a mare o almeno di essere sbattuti sui gard-rail, mentre nel tratto dove il vento doveva essere a favore correvamo nell’interno, tra i grattacieli o grandi alberature come a Vizcaya – comunque dichiaro che almeno verso il km 15 e il 38 ho sentito alle spalle una piacevole spinta, purtroppo durata poco).

La lamentela sul vento è stata una costante nelle dichiarazioni dei top runners: come scrive il Miami Herald, “The breeze combined with a humid starting time temperature of 73 meant any hopes of personal bests were blowing in the wind” (Bob Dylan ci soccorre!); “the problem today is wind – so much wind, everywhere. We had to struggle a lot”, dichiara il vincitore, il keniano di Eldoret Hillary Too, con 2h 23.02, mezzo minuto meglio dell’etiope Teklu Deneke, il quale insiste: “the wind was very bad and it was hot”. Modesto il tempo della vincitrice donna, la russa Lyubov Denisova, che con 2.40:53 ha vinto 4500 dollari che le serviranno per pagare gli studi della figlia negli Usa: e sul vento dice semplicemente “Terrible”. La mezza maratona, che partiva e correva insieme a noi fino al rientro sulla terraferma di Miami-Downtown, è stata vinta dal keniano Julius Koskei (1.05:47) e dalla etiope Senbeto Geneti (1.07:43).

Miami Marathon 2018

Sono 2918 i classificati nella corsa “full / completo” (come dicevano i cartelli), 14mila nella mezza; ci si aggiungono i 5 km, il Kids run, la corsa per le carrozzelle e per altre categorie di disabili, assistiti da volontari. Mi ha commosso vedere un uomo senza un braccio che spingeva il baby-jogger di un handicappato grave. L’organizzazione è semplicemente perfetta, nello stile americano: dal momento dell’iscrizione (100 dollari, cioè 80 euro: bruscolini!) sei bombardato da email quasi quotidiani, che si intensificano nell’ultima settimana; l’Expo è nel quartiere delle arti, suburbio un tempo degradato e oggi luogo privilegiato per artisti, hippies, negozi tipici ecc.: ci si va con navette gratuite che partono sia dal centro sia da Beach. All’interno dell’ampio capannone (ingresso previa perquisizione dello zaino), c’è la consueta distribuzione di gadget, bevande, cibi vari, tutto gratis (penso alla tirchieria degli espositori nostrani); massaggi, tapis roulant ecc. Una ventina di box distribuiscono senza code il pettorale (che include il chip monouso) e il pacco-gara, in sostanza ridotto a una maglietta.

Sconsigliato usare le auto per raggiungere il luogo della partenza, giusto sul porto e nel centro commerciale di Bayside: il Metro mover (alle cui stazioni peraltro i maratoneti possono parcheggiare gratis) ha tre fermate nel raggio di 200 metri, e infatti alle 5 di domenica mattina è uno spettacolo vedere i podisti che si dirigono verso le varie stazioni e montano in carrozza. Noto che la maggioranza non ha zaini da depositare al “Gear check” (ingresso che ricorda un po’ quello di Fort Wadworth a New York, ma senza controlli polizieschi): evidentemente sono residenti locali che semplicemente escono da casa (o dall’albergo).

Italiani, pochissimi (nelle posizioni di rincalzo vedo un Francesco Maino da Busto Arsizio, 136° in 3h 27, e un Gabriele Giachi da Lamporecchio, 146° in 3 h28; tra le donne, Samantha Di Giacomo, Tamara Gozzi, Paula Nicchiarelli, Francesca Balestrazzi sono classificate da Miami, Daniela Piaggio dall’Honduras, Tiana Baroni da Boston, e via così). Ma nella mezza c'è addirittura una signora di Reggiolo, Sabrina Strazzi: speriamo che Morselli le estorca un commento... Prevale la lingua spagnola, parlata dai tanti centro- e sudamericani (Perù, Argentina, Guatemala, Colombia mi sembrano le magliette più frequenti): infatti la gara degli amatori è vinta da un argentino di chiara origine italiana, Sebastian Castellani, in 2h 41, e da una colombiana di Medellin, Ana Maria Naranjo, in 3h19.

L’italiano che fa parlare di sé le cronache è Stefano De Leo, 37 anni, che però risulta residente a New York: taglia il traguardo della sua prima maratona in 3.59:50, e aspetta l’amica di Brooklyn Sofia Hedstrom, 39 anni e 20 maratone corse: quando questa arriva in 4.19, Stefano inginocchiato le chiede in inglese di sposarla (“Sofia, will you marry me?”). La risposta è Yeah, e il commento: “When it’s right, it’s right”.

Il percorso è, almeno nella prima metà, da pelle d’oca: si parte al buio, e il sole sorge dall’oceano ormai a Beach: nell’isola si percorrono circa 3 km sul lungomare forse più famoso del mondo, Ocean Drive, per avviarci di nuovo verso Miami attraverso il ponte Venezia e l’isola di S. Marco. Di nuovo tra i grattacieli, poi quelli della mezza vanno al traguardo mentre noi pieghiamo a destra (sud) verso il segnale del miglio 14; da questo punto i ristori (finora regolarissimi ogni miglio, con acqua, gatorade e talora frutta) diventano anche ‘strani’: ghiaccioli colorati, spicchi di ananas, birra ghiacciata, sciroppo di cocco, cioccolato in barrette… Ci si allontana dal mare verso Vizcaya, poi al punto più meridionale del Coconut Grove, dopo il km 30, si fa il giro di boa tornando sull’Atlantico e in pieno vento, che soffierà alla grande sull’ultimo ponte verso Beach; dove però non arriviamo perché a un’isola intermedia facciamo inversione rientrando in Downtown al km 39.

Tifo abbastanza sensibile, e i soliti cartelli spiritosi: “Va più forte, dice tua moglie, perché così lei torna prima a dormire”; “Corri come se Weinstein ti stesse inseguendo”; “Su una scala da 1 a 10, tu sei 13,1” (cioè la lunghezza in miglia della maratonina). Parecchi i pacemaker, scaglionati grosso modo ogni quarto d’ora: il loro cartello reca non solo il tempo finale ma anche la media a miglio; moltissimi i bagni chimici (direi più che a New York) lungo il percorso.

Sfioriamo Little Havana e, dopo un crudele ponte piazzato al km 41,850 (almeno secondo il mio Gps, che alla fine darà 43,090), torniamo al luogo di partenza-arrivo per l’apoteosi finale, una medaglia dorata da almeno tre etti, e l’abbondante ristoro comprensivo di birra (obbligatorio dimostrare di essere maggiorenni!): sul prato verde del Bayside Park ci mettono in mano una o più scatole di cartone, contenenti pasta asciutta, formaggio, torta e altro. Chi corre col cellulare acceso, ad ogni rilevamento chip (cioè ogni 5 km) riceve un sms che lo informa sul tempo netto, lordo, media al miglio, piazzamento: io lo leggo solo dopo l‘arrivo, insieme all’email che riassume il tutto e aggiunge addirittura le foto e due video personali presi durante la gara. La mia prestazione tecnicamente orrenda (da jetlag, tallonite, vesciche, turismo pedestre e bagni di mare) è confortata dal piazzamento di categoria (6° su 22) e dal rilevamento che negli ultimi 2,195 ho superato 53 persone. Per forza: al traguardo c’era mio figlio americano, che guarda con crescente preoccupazione gli slanci senili del papà; mica potevo farmi vedere moribondo, e almeno negli ultimi 0,195 il Gps sentenzia che vado ai 4:55/km (meglio non rivelare cosa mi diceva dieci km prima…).

L’American way of marathon non prevede che ci siano docce sul traguardo: ma c’è il Metro mover che ci aspetta (una corsa ogni minuto, H24), e volendo possiamo anche rituffarci nell’acqua calda calda dell’Oceano: questa volta, la mia spiaggia prescelta si chiama Hollywood, non proprio da Oscar ma ci si può accontentare.

Informazioni aggiuntive

Fotografo/i: Daniela Gianaroli

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