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Gen 25, 2021 4162volte

Il benessere di corsa secondo “coach” Antonacci

Un Antonacci "newyorkese" e il suo libro Un Antonacci "newyorkese" e il suo libro Roberto Mandelli

Il nome di Ignazio Antonacci (da Polignano a Mare, 1973) è apparso varie volte su questa testata, sia per la presenza dei suoi pacemakers RunningZen in corse pugliesi (http://podisti.net/index.php/cronache/item/3863-taranto-10-taranto-nel-cuore.html ), sia per sue brillanti prestazioni in maratone internazionali come Valencia e la prediletta New York, con qualche maratona under 3h (http://podisti.net/index.php/notizie/item/5157-i-migliori-italiani-in-gara-a-new-york-domenica.html ), sia infine per la sua “dottrina” di allenamento (cfr. http://podisti.net/index.php/tecnica-e-materiali/item/78-piu-forti-e-veloci-per-la-tua-maratona.html ).

È ora il momento di vedere il suo insegnamento raccolto in un corposo volume di 373 pagine (stampate dalla Kimerik di Patti, Messina: per 20 euro), il cui titolo Corri verso il benessere è arricchito in copertina dall’ottimistico hashtag #puoisevuoi – Raggiungere quaLsiasi obiettivo di salute e di performance, e scandito nel suo corso da un gran numero di citazioni più o meno famose, exergo, presentazioni: tra i più citati, ci imbattiamo nel nome di Sergio Bambarén (che nel nostro piccolo mondo non avevamo mai sentito nominare, e ricorrendo ai motori di ricerca scopriamo essere un sessantenne scrittore ed ecologista peruviano, gran produttore di frasi celebri e luoghi comuni finiti su internet: https://www.frasicelebri.it/frasi-di/sergio-bambaren/). Per scoprire che “la sfida della vita consiste nel superare i nostri limiti” (come apprendiamo a p. 273) non c’è però bisogno di andare fino in Perù: basta guardare nostro figlio o nipote che prima va faticosamente a gattoni, poi si tira su, poi corre, poi impara a pedalare e a nuotare e infine (o purtroppo) prende la patente. E l’abbiamo già letto a p. 1, con parole poco diverse e la firma di Valentina Vezzali; e lo rileggeremo a p. 290 sotto la forma anglo-latina di NoHumanisLimited, che scritto “no Human is limited” beneficia di tre milioni e mezzo di googlate e fa pure il titolo della recente autobiografia di Eliud Kipchoge.

Analogamente, è vero che il “qui e ora” e “la verità è nella via di mezzo” sono legate alla filosofia Zen (pp. 27-28), ma l’hic et nunc o il  modus in rebus erano già il prodotto della vecchia filosofia greco-romana. E avrà ragione pure il Qohelet (per non dimenticare una terza civiltà da cui la nostra dipende): “C'è forse qualcosa di cui si possa dire: «Guarda, questa è una novità»? Proprio questa è già stata nei secoli che ci hanno preceduto”. Allora, se tutto è già stato detto, ben vengano autori come Antonacci che ce lo ripetono ponendo l’accento sulle cose più sagge e intonando il raca per le peggiori.

Questo di Antonacci sembra il suo primo libro a stampa, che mette insieme le sue certificate competenze di preparatore atletico (“coach”, come si precisa fin dalla copertina) e insegnante di scienze motorie, e le sue profonde convinzioni “Zen” che portano lui e i suoi allievi ad un approccio globale, mentale prima che fisico (a p. 21 si usa anche ‘olistico’) non soltanto alla corsa, soprattutto alla maratona, e prima di ogni altra alla maratona “major”; ma a tutto quello che le sta attorno, la precede e segue: in una parola, una filosofia di vita (immancabile fin da pag. 6 la frase che “la maratona è metafora delle vita”, su cui Google offre 494mila risultati). Da profano, forse accosterei questa metodologia all’allenamento mentale professato da una parallela scuola di mental coach e di “Programmazione Neuro Linguistica”, cui appartengono per esempio il Robert Dilts e il Ted Garratt citati un po’ imprecisamente a pp. 274-5, poi 372.

Insomma: questo libro offre molto più che le rituali tabelle (presenti con moderazione alle pp. 125-131, 146-7, e più sistematicamente nell’Appendice a 359-368) per correre da zero a 10/21/42 km: queste sono piuttosto evocate che dettagliate nei capp. da 5 a 8, e subordinate al principio esposto già nella prefazione, “la forza della mente riesce a portare il corpo ovunque desideri”. Naturalmente, l’affermazione va presa cum grano salis, per non indurci alla tentazione di saltare dalla finestra credendoci Peter Pan: la meravigliosa macchina del corpo umano, le cui risorse sono certamente più estese di quelle che la civiltà artificiosa di oggi ci induce a sfruttare, ha tuttavia dei limiti fisici, che nessuna mente per quanto ‘caricata’ potrà superare (a p. 75 viene qualche richiamo alla cautela, al non “spingersi troppo in là rispetto ai propri limiti”).

È sicuro che manuali come questo di Antonacci aiutano a riscoprire cose che forse già sapevamo eppure non mettiamo in pratica, e allora è bene che qualcuno ce le ribadisca, anche col supporto dei suoi allievi che qui sono chiamati a testimoniare, con entusiasmo e devozione, i loro successi sotto “quella losca figura” di un “noto spacciatore di sane abitudini e benessere psicofisico” (p. 265); allo stesso modo che Antonacci racconta del suo apprendistato in Kenia, sugli altopiani rossi dove i futuri campioni si preparano a piedi nudi ma con una forza e un entusiasmo che nel flaccido Occidente del welfare garantito stiamo smarrendo (infatti la pratica del barefoot è sconsigliata a pp. 61-3, rispetto all’uso di scarpe più o meno “secche”).

Piaccia o no, a tutti noi corridori capita di procurarci “lesioni e traumi”, descritti a pp. 76-70, coi rimedi più immediati (compresi stretching e ghiaccio, che secondo altre ‘filosofie’ sarebbero invece negativi: a “teorie discordanti” si accenna a p. 101); basilare la raccomandazione di un “approccio Zen”, che viene declinato più in esteso nel cap. 5, “Le attività complementari alla corsa”, dove si fa una rassegna – credo completa – di tutti i “metodi” disponibili, e gli eventuali attrezzi per praticarli. La cautela maggiore sembra investire la “pliometria”, alias caduta dall’alto, che può essere “dannosa” e richiedere fasi di recupero (86-9); e allora, l’amatore che non voglia andare alle olimpiadi può accontentarsi di allenarsi a sensazione, secondo la “scala di Borg” di p. 131.

Preparazione fisica e psicologica sono affiancate nei capitoli chiave 7 e 8, che intendono portare i principianti fino alla maratona, con qualche parola difficile e qualche sigla di troppo (a p. 157 compare l’ATP, evidentemente ritenuto tanto noto da non necessitare di spiegazione, come la “deplezione” di 181-2). Novità (almeno per noi) introdotte nei metodi di Antonacci sono il SuperOp (200-202), versione tecnologica del “buon giorno si vede dal mattino”, e il CoachPeaking (“completamente in italiano” malgrado il titolo, e la spiegazione “we make training simple”, che magari un anglofono nativo direbbe “we keep” eccetera: 209-10; come direbbe “negative split” piuttosto che “Splite Negative” di p. 135 o “Negative Splite” di 183). Ci sfugge poi che bisogno ci sia di dire tante cose in inglese, e sottolineare con un insistente corsivo parole come runner, pullman, performance ecc., che sono su tutti i vocabolari italiani; e tanto che ci siamo, sottolineare anche post come se fosse una roba da Facebook e invece è una parola latina, poi italiana (postindustriale, postcomunista ecc.).

Ma forse, l’anglismo è indotto dalla finalità che appare dal cap. 9, “Strategie per la maratona”: consigli senza dubbio utili in generale, ma che da p. 225 si rivolgono in maniera specifica a chi frequenta le majors e in particolare New York (i pullman per la zona di partenza, la lunga attesa prima del via a onde, il telo termico, il ritorno veloce in albergo per la doccia). Con tutto il rispetto per New York (peraltro, la meno ‘naturale’ e la meno-Zen di tutte le maratone al mondo), crediamo che sarebbe meglio avviare chi corre la sua prima 42 a qualcosa di più tranquillo e casalingo, in patria, così da non aggiungere, all’ansia della “prima volta”, anche i problemi di un lungo viaggio, del fuso, della lingua, della cucina ecc. Invece Antonacci insiste con le major, soprattutto New York (da lui corsa cinque volte, più la volta che non si disputò causa meteo), cui dedica venti pagine dell’ultimo capitolo, che al termine si trasforma in un aperto invito a raggiungere la Grande Mela.

Torniamo alla parte più meritoriamente formativa del libro: la “valutazione funzionale” (i test, non tutti semplici da attuare in autonomia) del cap. 10; il triathlon del cap. 11 (il “Progetto Neofiti IronMan 70.3” è stata un’altra iniziativa di Antonacci); l’ “allenamento mentale” del cap. 12, allo scopo di “sviluppare il flow, o esperienza ottimale (citato come trance agonistica nel linguaggio sportivo)”, dove tornano i capisaldi della visione dell’autore. Più lungo, oltre 40 pagine, e a nostro avviso meritevole, è il cap. 13 sull’ “Alimentazione naturale per la corsa”: sebbene l’esergo di Gandhi “Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”, e il motto finale di Terzani c’entrino – è il caso di dirlo – come i cavoli a merenda.

Si insiste (p. 291, e di nuovo 306, e con parole cambiate a 315) che il cibo è “il farmaco più potente”, capace di preservare il nostro benessere (ma anche di farci ammalare se scelto e consumato a sproposito) in virtù dell’ “azione dinamica specifica” di ogni alimento; Antonacci propende per il controllo dell’indice glicemico e la dieta a zona di Barry Sears (detto biologo a p. 294, ripresentato come biochimico a 306), arrivando poi, dalla p. 315 in poi, sulla base della sua personale esperienza (dichiarata a p. 318), all’elogio della mensa vegetariana se non addirittura vegana, ed al “crudismo” ovvero l’alimentazione “viva senza cottura”.

Siamo sicuramente d’accordo che il non cibarsi di carne sia una scelta etica, che se avessimo buon cuore tutti dovremmo praticare; qualche dubbio ci viene però se pensiamo che è la natura ad obbligare la stirpe umana a cibarsi di proteine, e quelle vegetali non bastano, tanto da rendere necessario il ricorso a integratori (è una crudeltà, ma purtroppo imposta dalla citata madre natura, che gli animali carnivori siano obbligati a uccidere le loro prede e cibarsene, e che i miei gatti, per compensarmi del cibo che do loro, ogni tanto mi portino in casa dei topi appena uccisi).

Ma non angosciamoci troppo, tornando piuttosto (da p. 319) a un argomento caro ad Antonacci, quello di “alimentazione ed emozioni”, secondo cui tutti i cinque sensi – non solo il gusto – devono essere coinvolti attorno a una “tavola festosa” alias “pasto emozionale”, dove gli stessi colori dei cibi infondono buonumore. E quanto agli integratori, vanno elogiati i suggerimenti di 330-1 a farsi da sé in casa gli “estratti” di frutta e verdura; prima di arrivare alla Finishline all’insegna del “buona corsa e buona felicità”, come al solito supportata da citazioni delle auctoritates più gettonate.

Peccato che molte citazioni siano riportate inesattamente (“un giorno potresti guardanti indietro”, p. 212; “non dovrebbe disturbare chi che la sta facendo”, 251), in linea con una resa (diciamo così) tipografica ben poco soddisfacente: scelte aberranti tra indicativo e congiuntivo (“l’importante è che non avviene un’attivazione”, 102; “sembra che il fattore decisivo è l’economia”, 108; “nonostante la produzione di acido lattico continua a salire”, 122; “gli yogi credono che la pratica attiva e bilanci”, 98; e viceversa “considerate che i percorsi ove i keniani si allenino sono strade sterrate”, 141); concordanze azzardate (“un ospedale pediatrico ove abbiamo visitato a Natale 2019”, 44, “un periodo di tempo che può oscilla” 101, “corri per divertiti” 355), le virgole disseminate nello stile del seminatore evangelico (un po’ sulla terra, un po’ tra i rovi, un po’ sui sassi), accenti e apostrofi aberranti (“ha fatto si di vivere”, 42; “come sì suol dire”, 96, “un ottima soglia” 136, “un ottima gestione” 238, “c’è l’ho fatta” 266). È un peccato, ripeto, perché queste continue sciatterie formali guastano un libro nato da intenti “sani”, da competenze pratiche, da successi sportivi che non ci sogniamo proprio di sminuire, e che nell’oralità non meno che nella pratica trovano il mezzo comunicativo migliore. Siamo sicuri che alla prossima edizione andrà meglio.