Direttore: Fabio Marri

* Per accedere o registrarsi come nuovo utente vai in fondo alla pagina *

Lug 15, 2024 108volte

Murakami, ben più che la solita “arte di correre” (per quella, basta Gigliotti!)

Murakami, ben più che la solita “arte di correre” (per quella, basta Gigliotti!) R.Mandelli (da F. Marri e Sara Krulwich)

Tennessee, luglio 2024 – Finalmente, quindici anni dopo l’uscita in Italia, e dieci anni dopo che avevo trovato il libro sotto l’albero di Natale, ho fatto quello che tutti i podisti di media cultura (e molti altri) dichiarano di avere fatto da tempo: leggere L’arte di correre di Haruki (nome) Murakami (cognome), scritta in originale nel 2007 con un titolo giapponese molto diverso, e sicuramente migliore (dovrebbe essere qualcosa come “Di che parlo se parlo di corsa”), mentre il titolo europeo rischia di far confondere il libro con l’ennesimo manuale su come migliorare le proprie prestazioni, e magari un resoconto delle proprie gesta che interessano solo a chi le racconta (mi consolo vedendo che Murakami ha praticamente la mia età e i suoi crono sono stati all’incirca i miei, anzi un po’ peggiori malgrado gli allenamenti molto più qualificati, i personal trainer che ha, ecc.).

Comunque, la prima ottantina di pagine è filata via all’insegna del “tutto qui?”, con poche eccezioni: la descrizione del runner’s blues, il sentimento di ingiustizia che ti prende quando il risultato sportivo non ripaga delle fatiche della preparazione (p. 15, poi 99, e in tanti altri luoghi, così che poi diventerà quasi il filo conduttore, non solo sportivo); o il paragone di sé stesso e della nostra categoria con un cavallo da tiro più che da corsa (p. 26). 
Si incontra a tratti lo scrittore (cioè dieci gradini più su del “podista che scrive”); nella constatazione “che la vita è iniqua: ci sono persone che per raggiungere un risultato devono faticare, altre che ottengono quello che vogliono senza alzare un dito” (39), o nella riprovazione della corsa obbligatoria a scuola (mentre la verità più profonda che la scuola deve insegnarci è “che le cose veramente importanti non si imparano a scuola”, 42).

Il Murakami maratoneta (anche qui, obbligatoriamente distinto dal podista che scrive, magari esaltando la maratona chiusa in 6 ore col secondo posto di categoria su 3 partecipanti) salta fuori nel commentare a 48-49 la sua prima maratona, “una competizione in cui si corre, non si cammina”, anche se si è arrivati “a un’età in cui non si ricevono più regali”. Eppure è meglio vivere “intensamente, perseguendo uno scopo” gli anni che ci restano: e la corsa a piedi è (ahinoi, paragone che non  vorrei leggere più, al pari del terzo gradino del podio e del serpentone multicolore) una “metafora della vita” (71).

Tutto qui? Arrivato a p. 79, sia pur apprezzando un’altra bellissima riflessione sulle proprie qualità residue, tante o poche che siano (“come quando si apre il frigorifero, si prende quel poco che resta  e ci si mette a cucinare  qualcosa come si può -  e nemmeno tanto male – anche se ci sono soltanto mele, cipolle, formaggio e umeboshi” [specie di albicocche in salamoia]: p. 74), poi la constatazione sullo skateboard (“cosa ci sia di divertente in quel terrificante arnese, a essere sincero non l’ho mai capito”): di fronte al frusto aforisma sulla nostra condizione umana di “piccola tessera nel mosaico gigantesco della natura” mi chiedo ancora cosa ci sia di tanto speciale.
Per vincere la noia chiedo ad Alexa di suonarmi le canzoni che Murakami dice di ascoltare mentre corre, come quelle dei Rolling Stones o Eric Clapton: francamente, da quegli album preferisco Paint it black perché ci riconosco la cover della Caselli, ma tutti i gusti sono gusti.
Insomma, vabbè, finirò questo libro e non mi verrà certo voglia di rileggerlo: manca una sessantina di pagine… Però… finalmente alla fine del cap. 5 (ambientato a Cambridge, Massachusetts) lo Scrittore comincia a farsi valere con le sue considerazioni sull’imbastire un discorso in lingua materna o in lingua straniera, e aggiunge che fare jogging aiuta a risolvere le difficoltà della seconda cosa: “mentre porto avanti automaticamente le gambe, nella mia mente le parole vanno allineandosi una dopo l’altra. Misuro il ritmo delle frasi, ne valuto la risonanza… senza volere ci metto anche l’espressione, ci aggiungo i gesti, e chi viene dalla parte opposta mi guarda come se fossi pazzo”.

Adesso sì che comincia a piacermi, tanto più quando a principio del cap. 6, che racconta della sua prima e unica Cento km, esordisce con “la schiacciante maggioranza delle persone al mondo – o forse sarebbe meglio dire tutti coloro che hanno un po’ di sale in zucca”, non ci pensa proprio: “i normali cittadini sani di mente non fanno certe pazzie” (p. 88).

Ma la lunga descrizione di questa impresa pazza è la prima cosa dove lo Scrittore ti cattura sul serio: nel descrivere, dopo metà gara i propri muscoli “duri e tesi come pane avanzato da una settimana”, ma che rinunciano alla protesta, accettando “senza fiatare la spossatezza come una necessità storica, uno sviluppo rivoluzionario. Nessuno batteva più sui tavoli, nessuno lanciava più i bicchieri”. Da parte sua, Murakami tiene fede alla sua regola che non si cammina mai (anche sulla sua tomba vorrebbe che si scrivesse “se non altro, fino alla fine non ha mai camminato”): piuttosto ci si ferma a fare stretching, ma poi si ricomincia a “dondolare a ritmo le braccia, spostare in avanti le gambe. Senza pensare a nulla. Senza porsi domande”. Finché si rende conto che la fatica è scomparsa, o meglio “spostata in un angolo recondito, come un brutto mobile di cui per qualche ragione non ci si può disfare”. L’insegnamento di questa Cento (finita in 11h42, insomma, tempo da essere umano) è che “correre non è tutto nella vita, constatazione se vogliamo evidente” (bè, non ai podisti di cui sopra, che festeggiano ogni occasione selfandosi mentre corrono maratone fatte e strafatte); è solo “un amore che ha perso l’ardore irragionevole dei primi tempi” (100-101).

Ora davvero la lettura si trasforma in ascolto e colloquio, quasi come con un Seneca, un S. Agostino, un Pascal…: “forse la vita è così. Forse è una cosa che dobbiamo semplicemente accettare, a prescindere da ragioni e circostanze. Come le tasse, come i flussi delle maree, come la morte di John Lennon, come un errore dell’arbitro durante i campionati del mondo” (102: ecco, ditemi voi quale altro podista-scrivente sarebbe capace di pensieri del genere).

Inevitabile il capitolo su New York e la sua maratona, ma fortunatamente privo dei toni entusiastici da novellino o da tour operator che conosciamo, e semmai con riferimento a una poesia sull’autunno a Central Park: “i sognatori a mani vuote immaginano terre esotiche; ma è autunno a New York, è bello viverlo un’altra volta”. La maratona del 2005 non va “molto bene”, agonisticamente parlando. Ed ecco ancora lo Scrittore:
Avrei voluto chiudere questo libro con le vibranti parole ‘dopo un serio allenamento ho fatto un ottimo tempo. Tagliare il traguardo è stata un’emozione’, poi, accompagnato dalle note trionfali del Theme from Rocky, andarmene via con noncuranza, senza fretta, nella luce del tramonto… Ma a un certo punto della nostra vita, quando abbiamo veramente bisogno di risposte chiare, chi viene a bussare alla nostra porta di solito è qualcuno che ci porta cattive notizie… Il messaggero porta la mano al berretto con l’aria di scusarsi, ma questo non rende più lieto il contenuto della lettera che ci consegna. Non è colpa sua… E’ per questo che noi esseri umani abbiamo bisogno di un piano B.

Com’è come non è, dal 25° km un crampo alla caviglia lo costringe “a ridurre la velocità a quella di un podista” (sic nella traduzione: immagino intenda un jogger, non un runner, ma penso ancora ai podisti-scriventi che postano sui social le proprie 6 ore abbondanti…). Invece 
Ce l’avevo messa tutta, perché doveva venirmi quel maledetto crampo? … se in cielo c’è un Dio, non potrebbe darci ogni tanto un piccolo segno della sua esistenza?

Ma anche quest’esperienza ha insegnato: sei mesi dopo, Murakami corre Boston, per rivincita e contravvenendo alla sua regola di “una maratona all’anno” (vi ricorda qualcuno?? certamente pochi), scientemente riducendo gli allenamenti, e ottiene lo stesso tempo che a NYC. Sa fare tesoro del suo riconoscersi, anche dopo essersi cimentato nel triathlon, “un magro corso d’acqua che venga assorbito silenziosamente dalla sabbia del deserto”, eppure 
anche quando sarò decrepito, quando le persone intorno a me mi esorteranno a smettere dicendomi che sono troppo vecchio per correre, me ne infischierò e persisterò. Anche se farò tempi sempre peggiori… Sono fatto così, è nella mia natura, la gente può dirmi quello che vuole... 
Con la mia natura, come fosse una vecchia borsa tenuta a tracolla, ho percorso molta strada. Non me la porto appresso perché mi piaccia. E’ troppo pesante per me, e nemmeno tanto bella. Qua e là è strappata. Mi sono rassegnato a tenermela perché non ne ho un’altra di ricambio…Continuo a portarmi in spalla la mia vecchia borsa. Probabilmente diretto verso qualcosa di poco incisivo. Diretto verso una maturità taciturna e barocca – o per esprimermi in maniera più umile, verso il vicolo cieco dove si arresterà la mia evoluzione.

Non si vive per correre, ma si corre per fare meglio le cose importanti della vita: nel caso di Murakami, che chiude così il libro (145), “poter dare il meglio nella scrittura:… se per allenarmi alle gare non dovessi più trovare il tempo di scrivere, finirei col confondere causa ed effetto. Per me sarebbe un problema”. Ecco quello che distingue L’arte di correre dalla miriade di libretti dai titoli affini: è un libro scritto, magari senza nemmeno pensarci troppo (“solo” dieci anni!) da uno Scrittore, che occasionalmente fa il podista; non da un podista che decide di fare lo scrittore ma al di là delle maratone concluse e infiorettate da dettagli autocelebrativi non sa dirci altro.

L’opera è dedicata “a tutti i corridori…, a quelli che ho superato e a quelli che mi hanno superato in gara. Senza di loro, forse non sarei riuscito a correre per tanti anni”. E chi l’ha letta “con colpevole ritardo” (per usare una frase fatta) ma con crescente consenso, ne scrive ora, che il grande Lucio Gigliotti (il Murakami dell’Olimpiade) ha varcato un traguardo importante della sua vita, i novant’anni di gioie e successi fondati su pene e sacrifici indicibili della prima età.

Dal soggiorno in mezzo agli Usa viene da lanciare uno sguardo strabico, a destra verso l’Atlantico e l’Europa, a sinistra verso il Pacifico e il Giappone: grazie perché, ognuno a suo modo e coi suoi talenti, ci avete arricchiti.

Lascia un commento

I commenti sono a totale responsabilità di chi li invia o inserisce, del quale restano tracciati l'IP e l'indirizzo e-mail. 

Podisti.Net non effettua alcun controllo preventivo né assume alcuna responsabilità sul contenuto, ma può agire, su richiesta, alla rimozione di commenti ritenuti offensivi. 
Ogni abuso verrà segnalato alle autorità competenti.

Per poter inserire un commento non è necessario registrarsi ma è sufficiente un indirizzo e-mail valido.
Consigliamo, tuttavia, di registrarsi e accedere con le proprie credenziali (trovi i link in fondo alla pagina).
In questo modo potrai ritrovare tutti i tuoi commenti, inserire un tuo profilo e una foto rendere riconoscibili i tuoi interventi.

Ultimi commenti dei lettori

Vai a inizio pagina