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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

21 luglio - Podisti.Net era nato da pochi giorni, e diciannove anni fa andai per la prima volta a Davos per correre la Swissalpine. Me l’aveva raccomandata un meraviglioso ingegnere bolognese, che anzi mi portò lassù con la sua auto, una Volvo che faticava alquanto in salita, ma arrivava comunque.

Da principiante, quell’anno corsi “solo” la maratona, mentre l’Ingegnere, un anziano alpinista e dirigente del CAI, si cimentò come sempre nella mitica 78 km. Dall’anno dopo, mi buttai anch’io nella K 78, e ci portai tanti amici nel corso del tempo. Tutti ne tornarono entusiasti, e fin dal primo momento giocai la mia credibilità mettendo Davos al primo posto delle corse che uno non può perdere,  a pari merito con un’altra corsa, sperimentata dal 2000: la Jungfrau Marathon di Interlaken. Così ne scrissi.

31-7-1999

Davos, 31 luglio: la fine del mondo

Prima di morire, tutti devono andare a Davos, alla Swissalpine Marathon: non  è necessario fare i 78 km del percorso intero, che pure hanno attratto anche quest’anno più di mille partenti; ma “basta” una maratona di 42 (altri 900 partenti), con due cime di 2600 metri da scalare dopo la partenza dai 1350 metri e prima dell’arrivo (a Davos appunto) a quasi 1600. E c’è anche la maratona a staffetta (3 componenti), e la 30 km quasi pianeggiante, oltre alle gare per bambini. Panorami da togliere il respiro, organizzazione perfetta (incluso il servizio ferroviario gratuito per i vari punti di partenza e per il ritorno), tifo incredibile -anche in alta quota -  anche i pastori!-, classifiche esposte meno di mezz’ora dopo l’arrivo di ciascuno. Una delle cose più incredibili è che tra gli organizzatori ci sono le Ferrovie retiche  e le Poste: ve l’immaginate voi, in Italia? Neanche su quella rivista patinata, dove un paio di mesi fa è stato scritto che una maratona in Svizzera bisogna programmarla un anno prima, vorranno credere che si accettavano iscrizioni anche la mattina della partenza.

Da andarci assolutamente. Dicono che meglio ci sia solo la maratona della Jungfrau, guarda caso sempre svizzera.

Da quel momento e per ora, nella personale classifica di partecipazioni Davos batte Interlaken 9 a 7: ci sarei andato molto più spesso (all’inizio di ogni anno, sono i due primi nomi a essere scritti nell’agenda dei desiderata), ma i casi della vita costringono talvolta a prendere decisioni diverse, e spesso la curiosità per lunghissimi di montagna organizzati in Italia mi ha spinto a restare in madrepatria.

Ma perché più a Davos che a Interlaken (sinonimo di perfezione assoluta)? Perché a Davos c’è una abbondanza di scelte, dapprima tra 78 e 42 km, poi con l’aggiunta di altre 42 disputate in contemporanea su percorsi diversi (volta a volta chiamate K 42, C 42, S 42, L 42 ecc.), e una 30, e una 21, e una staffetta ecc. ecc. Negli ultimi anni, pure una 214 e una 133, che non mi sogno certo di fare, perché vorrei correre per divertirmi e non per aggiungermi una medaglia su un petto da gerarca sovietico antico.

Avrei voluto correre per l’ultima volta la K 78: ma quest’anno è stata soppressa, forse perché i 455 finisher del 2017 sono stati ritenuti troppo pochi. Al suo posto, c’è (ci sarà) una 88 km, con dislivello molto accresciuto e la partenza da San Moritz; e, se non bastasse , una 127 con partenza da Samedan. Tutte assegneranno punti per l’UTMB (anch’io, senza cercarli, qui ne ho fatti 3): ma non vorrei che questa rincorsa crescente alle difficoltà, all’allungamento, al sovrumano, restringesse i partecipanti a una élite sceltissima (quella che poi, come dice Mainini senior da Reggio Emilia, dopo cinque anni smette con i menischi consumati e i legamenti a pezzi), lasciando a casa i podisti normali. A Davos e Interlaken ho sempre corso con le scarpette da asfalto, come tutti i mei amici, senza problemi. Adesso sta diventando impossibile.

Ma anche i numeri di una volta stanno diventando una chimera per gli organizzatori, e forse qui sta una causa della rincorsa ai cambiamenti: intanto, questa T 43, dichiarata in due diverse pagine del sito di 42,9 ovvero di 43,5 km, con 2574 metri di dislivello, è stata conclusa da appena 109 persone (+ 11 ritirati). L’equivalente del 2017, la L 43, aveva visto al traguardo 134 podisti. D’accordo, questo era chiamato “prologo”, in sostanza un collaudo pionieristico del percorso che costituirà la prima metà della K 88 prevista la prossima settimana; ma non so quanto convenga, a chi allestisce, il mettere in piedi una macchina che in questo penultimo sabato di luglio ha convogliato in zona (tenendo conto anche dei percorsi minori di 29 e 16 km) solo 250 sportivi. Nemmeno il gradimento dei podisti è come una volta: se nel 2017 il consueto referendum tedesco ha messo Interlaken al secondo posto assoluto  (dopo il Rennsteig di Eisenach, la “Davos tedesca”), la Davos svizzera è scivolata al 53° posto, solo settima tra le 20 elvetiche votate.
Ci sono andato, ripeto, per nostalgia e per curiosità: il nuovo tracciato mi mancava, non ero mai stato in questi posti (di Davos si sente solo il nome e il profumo, ma non lo vediamo mai nemmeno dall’alto delle due cime principali che dobbiamo salire), il nome di Samedan (accento sulla E, o se volute dirlo alla ladina Samàden) è già noto agli appassionati per la 25 km di mezzo agosto: insomma, ci sono le garanzie per essere soddisfatti.

A dire la verità, dalle istruzioni si poteva dedurre qualche avvisaglia che non tutto sarebbe stato come al solito (a parte i costi di iscrizione, al livello o quasi delle gare maggiori, vale a dire fino a 127 euro compresa la cresta del mediatore di iscrizioni: però coi tradizionali benefit, come il transito gratuito per una settimana su tutti i treni svizzeri): tre ristori segnalati in tutto su 43 km, cui veniva assegnato un tmax di 10 ore (segno che non si trattava di una banalissima, atleticamente parlando, maratona di Roma o New York), e in questi ristori l’unico nutrimento solido garantito erano le banane; la sola bevanda calda era data come disponibile al km 30. Eppure, i materiali obbligatori (in realtà, mai controllati) erano esclusivamente un impermeabile e una borraccia d’acqua: nessuna richiesta di barrette o frutta secca o simili.



Comunque, si parte, a un orario comodo (le 10, poi divenute per strani motivi le 10,08) anche per chi arrivasse in giornata senza spendere per alberghi. Il meteo (che in Svizzera è il più preciso d’Europa) prometteva deboli piogge a partire dalle 11, con possibili rovesci pomeridiani e miglioramento in serata; temperatura mai superiore ai 12 gradi, e di 6 gradi o meno alle vette più alte (una quota 2500 al km 9 e un 2600 abbondante verso il km 35, con partenza e arrivo a 1700).

I primi 6 km sono deliziosi, si arriva a un alpeggio-ristorante attraverso una comoda stradina percorsa da ciclisti. Dentro l’alpeggio si mangia, ma (è il primo avviso di cosa ci capiterà nel resto della gara) fuori non c’è niente per noi, salvo un rubinetto da cui fuoriesce un getto d’acqua fortissimo (quelli che servono per lavare dal fango le bici: foto 10-11), difficilmente bevibile.

http://foto.podisti.net/p206883660

Ma quasi nessuno ha sete, il cielo si è già coperto, qualche gocciola comincia a serpeggiare; e  ci prende la bellezza del panorama, tanto che sostiamo spesso e volentieri a fotografarci reciprocamente:  la bella americana di Denver Desiree, la coppia israeliana Nir e Adi, il giapponese Katsumasa… (foto 14, 16), la tedesca Birgit (foto 23, redattrice della testata tedesca Marathon4you.de, e già più volte alla Swissalpine): ma ancora lunedì sera il suo resoconto non appare, ci sono solo le foto:

https://www.marathon4you.de/laufberichte/swissalpine-prolog/bilder-vom-swissalpine-prolog-t43/3685

Almeno per i primi 30 km sarà un continuo rincorrerci e un chiedere “do you can make me a picture?”, “bitte kannst du mir eine photo maken?”.

Lasciamo pure che i primi guardino il cronometro (l’arrivo sarà quasi allo sprint tra due svizzeri, Bernhard Eggenschwiller dell’85 e il  ticinese Gabriele Sboarina, dalla chiara origine veneta, del ’90, in 4 ore e tre quarti; tra le donne, vince in 5h 34 la 39enne svizzera Nina Brenn); noi siamo qui per riempirci gli occhi e i polmoni, e farci un po’ di compagnia vista l’assenza quasi totale di addetti sul percorso (i più numerosi sono i fotografi) e la scarsità di bandelle segnaletiche (quelle ad esempio delle foto 34 e 35). A un certo punto, per vincere il perpetuo timore che mi assale se non vedo segnali, misuro la distanza che c’è tra l’uno e l’altro: sono mediamente 650 metri, decisamente troppi.

Se non altro, le frecce (foto 28) sono ben visibili, ma per l’attraversamento di S. Moritz, tra il km 16 e il 19 (la negazione del trail), bisogna stare davvero attenti. E quando la settimana dopo si correrà parzialmente in notturna, se non decuplicano almeno gli addetti sul percorso rischiano di dover poi ricorrere ai cani molecolari per recuperare gli atleti nei boschi…

I colleghi (partiti un’ora dopo) dei 16 km si staccano sulla sinistra, godendo la loro buona dose di panorami (foto 46-49); noi puntiamo invece sulla perla dell’Engadina, però… il ristoro di S. Moritz è davvero indegno: sotto la pioggia, un bugigattolo 2x2, con un tavolino che offre acqua ormai tiepida (“da doccia, non da bere!”, dico all’addetto), tè freddo e banane. Poco di meglio troveremo al successivo ristoro di Pontresina, dopo altri 14 km (sotto un portichetto, area di metri 3x1,50: foto 21, con Birgit infreddolita,  e 22 dove l’addetta non ha voluto apparire in foto: peccato perché era carina): c’è brodo vegetale caldo. Mentre all’ultima Verpflegung del km 38 ritroveremo le solite banane e l’acqua (stavolta inutilmente fredda: stiamo gelando da soli, a quota 2500).

Da S. Moritz si era ripartiti con uno zigzag molto asfaltato (rotatorie comprese) che tra dubbi segnaletici ci portava al casinò e all’hotel Kempinski, poi finalmente per un bel sentiero in moderata salita verso il Lei dals Chods (lago dei polli: chi vuol familiarizzare colla lingua grigionese, piuttosto somigliante al dialetto bolognese, cominci col tradurre i messaggi delle foto 51 e 52; cosa dica il cartello della foto 53 lo capiranno anche i fratelli Elkann e il cane di Vujadin Boskov). Qui al lago c’è un altro rifugio (foto 17, 18), ma neanche un pollo, né vivo né arrosto: l’unica anima viva dopo un tornantino è un fotografo, che mi richiama mentre sto cercando di entrare: dàinter an gh’ai nciàun (o circa…), non c’è nessuno.

Sarà la nostra sorte, come anticipato, pure negli altri due rifugi da cui passeremo (foto 25, 33): bui, sbarrati, nessun addetto, niente da mangiare e nemmeno da bere (neanche una fontanella). Pure il palasport di Pontresina (sul cui frontone campeggia la scritta “Langlauf”, cioè corsa lunga) per noi è muto.

Se dite che era previsto, ebbene sì; se dite che in 127 euro (purtroppo, la nostra moneta è scesa in picchiata rispetto al cambio 2 E = 3  Chf dei bei tempi) potevano starci anche due tavolini con un thermos di tè caldo… ebbene pure. E al km 38, dopo l’ultima salita (foto 39-40), ecco l’ultima banana di cui ho detto, da mandar giù con acqua fresca.

Controlli: un solo tappetino chip al km 16, mentre al 30 un tizio si limita a spuntare il nostro nome sul suo pc, senza prenderci il tempo (per me, lì sono 6 ore esatte): come si è visto, raggiungo Birgit, che mi farà in un certo senso da scorta nella salita bellissima ma durissima (non si chiama Muragl per caso), e altrimenti solitaria, di 800 metri verticali in 5 km tra i paravalanghe: la nostra ‘velocità’ raggiungerà i 26 minuti a km, e ogni tanto guarderò in basso per individuare, sullo sfondo di Pontresina, segnali di vita (foto 29-30-31).

Da qualche cartello escursionistico (foto 27-28) mi sembra di capire che al nostro prossimo rifugio di Muottas Muragl arriveremmo, senza salire in cima, anche per un’altra stradetta, percorribile di passo lento in 1h 45: ma… se ci fosse un controllo? Invece non c’è niente, i truffatori italici di cui parlano le cronache possono attrezzarsi, che qui c’è esca per le loro ambizioni. Invece quella brava gente di Birgit, Nir, Katsumasa, e perfino un Thomas Hunziker sguissero del 1983, se la fanno tutta senza sconti: il Gps di Birgit alla fine darà 43,100, anche se io penso che con tutte quelle nuvole spesso avremo perso i segnale, e che in una salita o discesa verticale a tornanti è difficile che il Gps ti misuri tutte le giravolte.

Ma in ogni favola c’è un lieto fine, quando sulle panchine per turisti affannati  comincia ad apparire la consolante scritta “Samedan”, e a noi che scendiamo si presenta la visione prima dell’aeroporto (foto 41-42), poi dei prati adiacenti, e più lontano del campanile (chiesa protestante rigorosamente chiusa, malgrado il cartello dia degli orari di apertura): ma dove sarà il campo del futball (bala-pé in grigionese)? Per rinforzo mentale si abbozza un conto alla rovescia: saranno 3 km? Adesso due? La pista dell’aeroporto sarà 800 metri? La partenza-arrivo è 500 metri sotto il campanile, dunque non può mancare più di un km…

Incrociamo ciclisti che ci urlano “Bravo, es ist geschafft!” (ce l’hai fatta); comincia l’asfalto, ecco il palasport dopo l’ultima curva a destra (foto 43): suona il chip, Gratulationen! Ti mettono al collo la medaglia d’acciaio, infatti con scritta “Irontrail”, ti danno la maglietta da finisher, e restiamo ad attendere i compagni di cammino e di foto: Birgit dopo 10 minuti, Nir dopo 13, Hunziker dopo 16. Ci abbracciamo (“oh my friend blowing in the wind! Lebst du noch?”), ci accomodiamo al pasta party (foto 45), dove il ragù è esaurito e suggeriscono di condire i fusilli col brodo e tanto formaggio. Sembra che la birra sia esaurita essa pure, ma ne portano un bel cartone; mentre ci rifocilliamo, un’oretta dopo, arrivano Chonh Yu e Katsumasa.

Per dirla in lingua grigionese, “Allegra!”.

Chissà se ci rivedremo.

Ha combattuto undici anni, con la scienza del medico e la forza caparbia dell’ultramaratoneta. Non ha perso, non si è ritirato, ci ha salutato per sempre su questa terra ma rimane nei ricordi e nelle testimonianze di quanti l’hanno conosciuto e stimato.

Non è più nella cronaca, entra nella leggenda.

Antono Mazzeo, calabrese di nascita (19 settembre 1952), bergamasco di adozione da 38 anni, da dodici tesserato per i Runners Bergamo del fraterno amico Gregorio Zucchinali, ci ha lasciato due giorni fa.

Per chi volesse salutarlo, la cerimonia funebre si svolgerà domani, martedì 24 alle 9,30, nella chiesa di S. Sisto in Colognola del Piano, a sud di Bergamo.

La sua carriera, diligentemente compendiata dall’altro grande amico suo e nostro, Stefano Scevaroli, è esposta qua sotto, e ci lascia letteralmente a bocca aperta. E dobbiamo aggiungere le oltre quattrocento maratone disputate, e una serie di record sulle ultradistanze, alcuni tuttora imbattuti nelle categorie  degli M 40 e 50 dove li ottenne. Lo sport caratterizzava anche la sua vita civile: per anni fu direttore della Medicina dello Sport di Bergamo.

Chi scrive ricorda di aver corso con lui (si fa per dire: visto alla partenza e ai festeggiamenti finali!) nel campionato mondiale della 100 km di Torhout nel 2002, una gara notturna che partì alle 20.02, in cui l’Italia si classificò terza nella classifica a squadre. Ebbi invece l’onore di fargli compagnia (e la presunzione di dargli dei consigli) alla 50 km Bologna-Zocca del 1° ottobre 2006, gara in cui esordiva, all’indomani dell’aver partecipato a una 12 ore in Toscana. Chiacchierammo lungo i 7 km di tornanti da Savigno a Montombraro, poi lui ovviamente mi salutò e partì per il traguardo, tagliato ampiamente sotto le cinque ore.

Ma pochi mesi dopo, nel 2007, la diagnosi impietosa, con un nome difficile da pronunciare, amiloidosi, e – peggio ancora – riferito a una malattia genetica di cui si conoscono poche centinaia di casi. Lo scoramento durò poco, Antonio riprese ad allenarsi al “suo” campo Putti di Bergamo, si collaudò nella primavera del 2009 con la maratona di Brescia (terminata in cinque ore), ed eccolo il 2 maggio dello stesso anno al via dell’ennesimo Mondiale della 24 ore, nella sua Bergamo, dove Monica Casiraghi arrivò terza assoluta, e dove lo ritrasse Roberto Mandelli nella foto qui sopra.

Da quel momento, sui campi di gara l’abbiamo forzatamente visto di meno, ma nel nostro cuore c’è sempre stato un pensiero insieme dolente e ammirato. Che il Suo esempio ci conforti e sorregga.

 

Il curriculum Ultra di Antonio Mazzeo

(Stefano Scevaroli)

 

Nato a Reggio Calabria il 19/09/1952, Antonio Mazzeo si è trasferito a Bergamo nel 1980.

Tesserato per la società Easy Speed di Bergamo fino al 2005, nel 2006 si trasferisce nei Runners Bergamo, dove rimane per tutto il resto della sua carriera.

Nella sua carriera di Ultramaratona, ha completato più di 65 volte una 100 km (di cui 7 sotto le 8 ore) e ha corso 45 volte una 24 ore (per 10 volte con più di 200 km).

 

Record personali

  • 50 km su strada: 3h29’00” (Terno d’Isola 25.10.1997)
  • 50 km su pista: 3h 37'23'' (Ferrara 4 marzo 2000)
  • NB) a Castel Bolognese nel 1997: 3h 17'16'' (distanza non certificata di 48-49 km circa)
  • 100 km su strada: 7h41'52'' a Jesi (21 Luglio 2002)
  • 100 km su pista:  7h 47’50” a Camporosso (IM) (7 aprile 2002)
  • 100 km indoor:  9h 56’27” (di passaggio alla 48 ore di Brno) (23.3.2001)
  • 100 km su tapis-roulant : 10h 06’  nel Giugno 2000
  • 24 ore pista: 245,173 km (San Giovanni Lupatoto, 24 settembre 2000)
  • 24 ore strada: 238,998 km (Uden NED Campionato Mondiale  10.2003)
  • 48 ore indoor:  301,868 km  (Brno (Rep. Ceka 23.3.2001)
  • 6 giorni: 726,644  km (Erkrath GER 7 agosto 2004)

 

12 Maglie Azzurre

  • 1997 campionato europeo 100km " Passatore " (nazionale sperimentale)
  • 1999 campionato europeo 24 ore su pista - Italia (nazionale sperimentale)
  • 1999 campionato del mondo 100 km - Francia
  • 2000 campionato europeo 24 ore su strada – Uden, Olanda
  • 2001 Campionato europeo 24 ore su strada - Apeldoorn, Olanda
  • 2001 Campionato mondiale 24 ore su pista – S. Giovanni Lupatoto
  • 2002 Campionato del mondo 100 km - Torhout, Belgio
  • 2002 Campionato europeo 24h su strada - Gravigny , Francia
  • 2003 Campionato europeo 100 km strada - Mosca, Russia
  • 2003 Campionato mondiale/europeo 24 ore strada - Uden, Olanda
  • 2004 Campionato mondiale/europeo 24 ore strada – Brno, Rep. Ceka
  • 2005 Campionato mondiale/europeo 24 ore strada – Worschach, Austria
  • 2006 Campionato mondiale 24 ore strada – Taipei, Taiwan
  • 2007 Campionato mondiale 24 ore strada – Drummondville, Canada

 

Risultati di rilievo

  • Medaglia di bronzo a squadre al Camp. Mondiale di 100 km del 2002 (Torhout – BEL)
  • Medaglia di bronzo a squadre al Camp. Mondiale di 24 ore del 2005 (Worschach - AUT)
  • Medaglia d’argento a squadre al Camp. Europeo di 24 ore del 2005 (Worschach - AUT)
  • 1° nell’edizione 2006 del circuito GRAND PRIX IUTA Trofeo Ethicsport
  • 1° alla 24 ore Lupatotissima 1998
  • 1° alla 24 ore Castiglion Fiorentino, nel 1999-2000-2001-2003
  • 1° alla 24 ore Sri-Chinmoy a Colonia, nel 1999
  • 1° alla 24 ore di Statte 2003
  • 1° alla 24 ore di Pioraco 2003
  • 1° alla 24 ore di Ciserano 2000
  • 1° uomo 24 ore Lupatotissima 2002: 230,833 km
  • 4° assoluto posto e 3° classificato al Campionato Europeo di 24 ore 1999 (Lupatotissima)

 

Capitano delle squadre azzurre di Ultramaratona

3 volte:  Campionato Mondiale 100km 2002,  C. Mondiale/Europeo 24ore 2005, C. Mondiale 24ore 2007

9 luglio – Gara che, data l’ubicazione (un paesino alle porte di Reggio strozzato da autostrada e TAV), non prometteva molte soddisfazioni, e che invece nel corso degli anni è riuscita a trovare un tracciato, lunghetto sì data la stagione e la collocazione al lunedì, quando tutti vogliamo rifiatare dopo la fatica domenicale (11,4 km, qualcosa più dei 10,5 del volantino; più un altro da 5 km), ma per gran parte campestre, in particolare con un paio di km molto belli a metà percorso, sull’argine ombreggiato di un corso d’acqua non esiguo.

Rispetto alla prima edizione cui partecipai nel 2013, ho trovato uno dei giri più belli dell’area reggiana, come in particolare le foto di Teida Seghedoni possono mostrare. Agli scenari naturali si sono aggiunte alcune, ehm ehm, emergenze faunistiche non disprezzabili, come quelle delle foto 226 di Teida e 159 di Nerino. C'era anche Giangi che faceva le linguacce: è così bello che può permetterselo.

Presenti modenesi in misura quasi equivalente ai reggiani, tant’è vero che la classifica per società è stata vinta dal Cittanova con 44 partecipanti. Ovviamente molti i carpigiani, non tutti col pettorale (tra due società presenti, ne hanno accumulati 16 in tutto), e pochini partiti all’ora giusta: forse perché la cosa più importante era accomodarsi ai tavoli della cena abbinata alla sagra patronale. Da domani partirebbe la mitica “Tre sere”, che però Carpi non sa più organizzare e si è trasferita nella vicinissima Correggio.

Puntuali le segnalazioni ‘umane’ sul percorso, da aggiungere ai due ristori, più uno alla fine; pacco gara (una scatola dolciaria, di quelle che le nostre mamme riutilizzavano a vita per metterci dentro il cioccolato in polvere o ... i bottoni) originale e ben commisurato ai 2 euro di iscrizione. Nessuna competitività e tanta allegria.

Il doppio album di foto:

http://foto.podisti.net/f94209137

 

1° luglio - Una volta la lingua della Chiesa era il latino, e in latino sono le lapidi affisse all’interno della chiesa parrocchiale di Santa Croce (frazione a sud di Carpi, vicino al casello autostradale, nota per essere sede ufficiale della produzione del lambrusco Salamino): da una lapide appare che la chiesa, eretta a parrocchia nel Quattrocento, fu solennemente ri-consacrata nel 1792 quando il parroco si chiamava don Aloisio Marrio (traducete voi…).

Ma la Chiesa si evolve: questa corsa è titolata all’inglese (sebbene il sottotitolo, e il sito della Onlus cui ci si riferisce siano in chiaro italiano “ho avuto sete (e mi avete dato da bere)”, e quando si fa del bene, complice anche la calura, non ci sono restrizioni verso le numerose signore e signori che si presentano, alla partenza-arrivo davanti all’ingresso dell’edificio sacro, in costumi alquanto succinti (vedere foto 173,  312, 349 ecc. ; che spettacolo tra le foto 194 e 202). Il che è una tradizione per il rubierese Bedeschi (388-9), mentre per altri si trasforma in un involontario revival del rag. Ugo Fantozzi (270).

Siamo davvero in tanti, sebbene il coordinamento modenese questa domenica abbia stabilito che si corra in appennino: e malgrado il prezzo ‘scomunicato’ di 2 euro (largamente compensato da un asciugamano come premio per tutti, oltre che da un ristoro dove le angurie vanno a ruba: e si noti che il ricavato va a finanziare una scuola in Malawi), ho l’impressione che i partecipanti siano un migliaio.

Contribuirà anche la sete di corse che c’è a Carpi: orfana della maratona, orfana delle “tre sere” che le verranno usurpate da Correggio, orfana di tante altre gare che sono sparite così come erano nate, la città e i dintorni accorrono su un percorso nuovo, i 3 km iniziali attraverso un parco erboso e alberato, poi per terre bonificate e rigogliosi campi di grano o frumentone verso Gargallo, la frazione più meridionale del comune (foto 129-131 ecc.), dove un anno fa di questi giorni si passò per un “giro delle frazioni” notturno, suggestivo ma oggi dimenticato.

Ne parlavo con uno degli organizzatori di allora, il vigile emerito Ermanno Pavesi (foto 357), il quale mi suggerisce che la persistenza di questa gara è dovuta al ‘potere’ del vescovo, che prevale sui burocratismi deleteri della circolare Gabrielli e sulla morìa naturale dei festival dell’Unità. Grazie vescovo: non sarebbe male se in questa repubblica i preti contassero di più (ma non troppo: almeno in campo sportivo) dei politici e burocrati. Chissà se l’annunciata corsa di fine agosto, della sagra di Ponticelli (che l’anno scorso saltò da un giorno all’altro) quest’anno si farà davvero. Nel qual caso non mancheranno due tra i più insigni sportivi carpigiani oggi presenti: il veterano dottor Guaitoli (foto 412) e l’ex assessore D’Addese (foto 470, col supermaratoneta Libero da Quarantoli: sarà una gara ultra-amatoriale, ma questi tre insieme avranno corso non meno di 500 maratone).

Alla gara di S. Croce vengono abbastanza compattamente le società della Bassa (Novi, Mirandola, Finale); e qualcuna del capoluogo (non però la società che abitualmente si aggiudica i prosciutti del gruppo più numeroso). Quelli della confinante Campogalliano fanno quasi gli onori di casa, e offrono visite guidate al vicino mini-santuario di via Pioppelle, dove tra il 1984 e il 1993 la Madonna apparve più volte al padre di un loro podista.

C’è tutto quanto si può desiderare da una corsa non competitiva: una adunata di amici e  di famiglie in cerca di aria pulita, di panorami abbastanza inediti (“quel cielo di Lombardia, così bello quando è bello”, diceva Manzoni), di svago a poco prezzo. Anche noi podisti di terza serie abbiamo sete, e Santa Croce ci ha dato da bere.

http://foto.podisti.net/f755246316

 

Lunedì, 02 Luglio 2018 22:14

Castelvetro (MO), 2° Vertical Ospitaletto

29 giugmo - Dopo un’edizione “zero” diurna allestita per la prima volta la mattina dell’Epifania 2017, il giovane e attivo gruppo del negozio sportivo “Run & Fun” di Modena ha convertito in serale la competitiva in salita sul percorso utilizzato in allenamento dall’olimpionico Stefano Baldini (il cui tempo di 25:00 rimane quello da battere ed è segnato vicino alla linea di partenza, nell’estrema periferia sud di Castelvetro in corrispondenza di una discesa ‘direttissima’ da Levizzano).

Il tempo-limite del 2017 era il 31:05 di Marco Ghelfi, cui per il lato femminile si aggiungeva il 38:15 di Federica Boschetti; poi, nella serale del giugno 2017 (su un percorso leggermente allungato), aveva prevalso il medico-pianista Giacomo Carpenito con 32:30.

Questa edizione è giunta, rispetto alla “zero”, al raddoppio degli arrivati, che sono una settantina; ad essi si aggiunge qualche decina di walkers cui è toccato (salvo decisioni individuali diverse) il percorso doppio, in discesa  e poi in salita (partendo un’ora prima dei competitivi). Il tracciato è piacevole, e dopo un inizio in moderata pendenza, dal secondo km in  poi si inerpica per una salita regolare ma non durissima fino a raggiungere il crinale che separa la valle di Castelvetro (del torrente Guerro) dalla valle del Panaro, sopra Vignola-Marano: luoghi dove nacque il podismo collinare modenese con una “Da la zresa al Lambrosc” organizzata addirittura nel 1971, e si tennero altre gare oggi estinte come la cronoscalata Castelvetro-Villabianca.

Migliorano anche i tempi di percorrenza, come è normale che sia per una gara agli inizi, ma non di tantissimo: il 31:16 di Miller Artioli (S. Vito Runners) batte largamente il Carpenito ‘notturno’, non ancora il Ghelfi ‘diurno’, che però aveva corso circa 150 metri in salita di meno e dunque virtualmente starebbe dietro. Secondo Marco Agazzani, ben distanziato a 37 secondi; terzo William Taglieri a 49 secondi.

Prima donna, e 19° assoluta, Sonia Del Carlo, con 36:45, solo 16” meglio della ‘notaia’ spilambertese Anna Lupato; si sono attesi quasi 4 minuti per la terza donna (su 13), Anna Pierini, 40:59.

Un festeggiamento in più per il ‘vecchio’ campione Andrea Baruffi, oggi 16° nel giorno dei suoi 50 anni.

Abbondante ristoro finale a base di frutta fresca, e una bottiglietta di aceto balsamico come premio per tutti, dietro tassa di iscrizione di 5 euro. Tempestiva l’emanazione della classifica finale emessa dal giudice d’arrivo Vincenzo Mandile con l’ausilio di Giancarlo Bonfiglioli, altro campioncino di scuola Fratellanza oggi ‘appiedato’ dai doveri istituzionali.

http://www.podisti.net/index.php/classifiche.html

 

Oggi è il 28 giugno - cammino per la strada - il mare è senza vento - non vedo un cambiamento”: così cominciava una canzone dei Rokes, fatua e mal cantata come tutte, ma che oggi a distanza di mezzo secolo esatto (1968) ti viene in mente con nostalgia, nell’andare all’appuntamento verso “più che una corsa, una marcia di protesta”, come dicevano il volantino e il sito degli organizzatori (un comitato cittadino, non fondamentalmente podistico).

Anzitutto, cosa sono i Prati di Caprara? Arrivando in treno dalla direzione Milano o Porretta, a 1,5 km dalla stazione di Bologna, sulla sinistra vedete una ciminiera (archeologia industriale), tutto attorno le officine di riparazione treni (mi è capitato di vedere in abbandono i mitici “Pendolini”, che dopo una breve vita giacciono qui ad arrugginire – come se non facesero ancora comodo alle nostre ferrovie), e sulla destra, subito prima della grande mole dell’Ospedale Maggiore di Bologna e sotto le colline tra l’Osservanza e San Luca, appunto i Prati di Caprara. Luogo che in anni antichi era frequentato anche per ragioni sportive (il Bologna calcio ebbe qui il suo primo stadietto, anteriore al Littoriale / Dall’Ara, e poi ci si installò il circolo sportivo Cierrebi). Poi l’abbandono, e la crescita spontanea di un bosco di quasi 50 ettari che, è stato calcolato, a ridosso di una delle aree più trafficate e inquinate di Bologna, e dell’ospedale più grande, assorbe 3 tonnellate di particolato all’anno e 1,4 tonnellate di biossido di azoto.

Bosco che, secondo un vecchio slogan dell’attuale sindaco (andato in carica dopo il commissariamento del Comune grazie alle avventure boccaccesche del sindaco precedente, pluricondannato o ‘patteggiato’), doveva diventare il pendant dei grandi Giardini Margherita, un nuovo polmone attrezzato per tutti, compresi i podisti. Promesse elettorali che oggi si scontrano con la necessità del Comune, e del Partitone che lo dirige, di fare cassa in fretta, prima che le prossime elezioni si trasformino per lui nella presa di Saigon (dopo 70 anni di autocertificata ‘buona amministrazione’, i vietcong sono appena arrivati a Imola da un lato, a Vignola e a Budrio dagli altri): sicché alle idee primordiali si è sostituito il progetto di abbattere il bosco, costruire 1300 alloggi e un megacentro commerciale, col contentino ‘sociale’ di una scuola: il che entrerebbe anche nel progetto di rifacimento dello stadio (un gioiello architettonico del regime, rovinato dalla ristrutturazione insensata di Montezemolo per i Mondiali 1990): caro padrone del Bologna calcio, tu rifai lo stadio e in compenso ti lasciamo costruire qui a ridosso.

Per chi volesse saperne di più, ecco un blog bolognese che riferisce della nascita del comitato cittadino, che ha raccolto migliaia di firme e si fa notare anche per eventi sportivi, e in questa giornata priva di altre corse in zona (una volta ci si faceva una camminata dell’Unità, scomparsa col giornale che avrebbe dovuto finanziare) ha organizzato questa doppia corsa, assolutamente non competitiva e ad iscrizione gratuita (si chiedeva solo una firma, del tutto facoltativa, sulla petizione di cui è riferito qui sotto):

 https://zero.eu/magazine/cosa-sta-succedendo-ai-prati-di-caprara-di-bologna/

Doppio evento, dicevo: alle 18,15 una “corsa clandestina” all’interno del bosco, di circa 3 km, e alle 18,45 una “camminata” lungo il perimetro esterno, di circa 3,5 km. Ovvio che i podisti ‘abituali (ho notato Joe Di Maggio, psichiatra e organizzatore a sua volta di eventi sportivi a favore dei disabili mentali) avessero in animo di fare entrambi i percorsi. Se non fosse stato che, al ritrovo, oltre al consueto tavolino delle iscrizioni c’erano anche due auto della polizia (e/o dei vigili urbani), una delle quali sbarrava lo stradello erboso di accesso al bosco.

Vietato entrarci, pena l’arresto! Si sa, con tutti i galantuomini che a quest’ora girano per Bologna svaligiandoti le case, è quanto mai utile impiegare gli agenti a controllare non più di cento podisti o camminatori, alcuni coi loro bimbi (quella in foto ha appena compiuto tre anni), che calpestando la sacra terra demaniale compiranno chissà quali reati, o forse si metteranno in pericolo dato che sotto il bosco, secondo alcuni, ci sarebbero ancora le bombe sganciate durante l’ultima guerra… Senza dire che dall’interno del bosco giungono voci, e si sa di stanziamenti ‘illegali’ ma tollerati (finché dura…).

Dunque, la corsa clandestina e la camminata si svolgono sullo stesso tracciato esterno, nella prima metà lungo la pista ciclabile Ravone (erosa dalle acque per un ventina di metri e transennata: ma siccome qui non c’è niente da guadagnare, la si lascia così con istituzione del ridicolo obbligo, per i ciclisti, di scendere dalle bici); poi girando attorno all’ospedale, in un viavai di ambulanze, autobus e auto private: perfetto esempio di inquinamento dell’aria.

Alcuni sbandieratori indicano il percorso, e un ragazzo in bicicletta segue gli ultimi corridori. Che sono i miei nipotini maschi, Davide di 9 anni e Paolo di 7, al loro esordio assoluto in una corsa col nonno. Primo km fatto con entusiasmo eccessivo, sui 5:45; poi subentra la stanchezza con qualche tratto camminato (anche perché si arriva alla zona trafficata, con auto tra cui incunearsi) e dunque la media si accosta a 7’; lo scatto finale, di nuovo su uno stradello senza auto, li porta a battere il nonno, il cui tempo cronometrico di 20:56 non viene ritenuto valido da Paolo “perché io sono arrivato prima di te!”.

Non se la sentono però di ripartire per il secondo giro, nel quale avrei intenzione di entrare nel bosco proibito, ma l’auto poliziesca continua a stazionare (evidentemente a Bologna non c’è altro di meglio da fare), e dunque mi tocca ancora il percorso asfaltato.

Non so quale sarà l’esito della vicenda: temo che questa corsetta lasci il tempo che ha trovato. Mestamente ci consolano gli ultimi versi dei Rokes:

 In fondo agli occhi miei

tramonta un altro sole

un sole che ormai non scalda più…

È uscito da poche settimane in Italia il libro di Rick Broadbent (giornalista sportivo inglese pluripremiato) Emil Zátopek. Una vita straordinaria in tempi non ordinari (edizioni 66THA2ND, Roma, 320 pp., 23 euro), che attraverso le vicende del leggendario vincitore di tre ori alle Olimpiadi del 1952 ripercorre un quarantennio e più di storia europea, non solo sportiva, con attenzione particolare alla triste parentesi della Cortina di ferro di cui lo stesso Zatopek fu inizialmente un po’ complice, poi inevitabilmente vittima.

I successi di Zatopek (nato nel 1922 e morto nel 2000, operaio nella fabbrica di scarpe Bata finché non fu arruolato nell’esercito per meriti sportivi, ma cacciato in miniera per demeriti politici dopo lo spegnimento della Primavera di Praga) nacquero da sistemi di allenamento mai prima praticati e all’epoca ritenuti insostenibili, la cui filosofia si condensa nella frase «Sono i confini del dolore e della sofferenza a separare gli uomini dai ragazzini». Allenamenti fatti spesso tra campi e boschi: tra i tanti aneddoti del libro c’è quello del cane che terrorizzava i podisti, e che Zatopek ‘ammansì’ (per così dire) facendogli pipì addosso, “così sa a chi appartiene questo territorio”.

La sua carriera internazionale cominciò con un quinto posto agli Europei di Oslo del 1946; nel maggio 1948 esordì sui 10000, stabilendo il record nazionale, giusto due mesi prima delle Olimpiadi di Londra, per le quali fu convocato, a rappresentare la “nuova” Cecoslovacchia dove nel frattempo un colpo di Stato stava instaurando il regime poliziesco destinato a durare quattro interminabili decenni. Per Zatopek, astro nascente utile per la propaganda, qualche concessione c’era, a cominciare dalla convocazione, un po’ burrascosa, per Londra anche della fidanzatina di Emil, la giavellottista Dana Ingrova, che pochi mesi dopo divenne sua moglie e compagna di tutta una vita (oltre che medaglia d’oro olimpica a Helsinki nel 1952, infine  argento a Roma nel 1960).

Il libro segue le vicende dei due, intrecciandole con quelle di grandi atleti che furono rivali e allo stesso tempo ammiratori di Emil, come soprattutto Alain Mimoun, algerino di cittadinanza francese, eterno secondo rispetto al cecoslovacco, che riuscirà a battere solo nell’ultima maratona olimpica di Melbourne 1956, quando finalmente Alain riuscirà a conquistare l’oro (mentre Emil, ormai sfiancato da una carriera intensissima, arriverà comunque sesto, e sulle distanze più corte vide la breve stagione di trionfi degli ultradrogati fondisti russi).

L'incommensurabile  era di Zatopek cominciò appunto a Londra nel 1948, dove vinse i 10000 davanti a Mimoun (che pochi anni prima, combattendo nell’ultima guerra, aveva rischiato l’amputazione di un piede), e arrivò secondo nei 5000; da lì, una serie di record mondiali – che saranno 18 in tutto -, tre ori e un bronzo ai campionati europei del 1950 e 1954, con vertice nella ineguagliata tripletta di 5000, 10.000 e maratona alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, col record olimpico in tutte e tre le gare.

Ma non si vive di sola corsa, ed Emil assistette impotente (o forse, come il libro suggerisce, indifferente) all’atroce incarcerazione, condita da torture e processi-farsa nello stile comunista, del suo allenatore Jan Haluza, dichiarato “nemico del popolo” e mandato a lavorare nelle miniere di amianto da dove era difficile uscire vivi. Ma Haluza si salvò, seppure minato nel fisico, e quando finalmente uscì di prigione poté incontrare di nuovo il suo miglior allievo, ormai divenuto una gloria nazionale e autorevole al punto di decidere anche le convocazioni olimpiche.

Ma vinceva, e non gli si poteva dire di no (riuscirà anche a far permettere il matrimonio, e conseguente espatrio negli odiati Usa, della discobola Olga Fikotova col martellista statunitense Hal Connolly): storico rimase il 27 luglio 1952, quando, nella stessa ora,  Emil vinse i 5000 e Dana il giavellotto olimpico. Ma, incredibile, tre giorni dopo Zatopek, che non aveva mai disputato una maratona, la corse e vinse in 2 h 23’, primato olimpico.

E a concludere quel magico 1952 vennero altri record, sui 25 e 30 km, e sulle 15 miglia. Anche i due anni seguenti furono ricchi di primati mondiali: quello dei 10000 ritoccato due volte, da 29:01 a 28:54, prima volta sotto i 29 minuti, come per i 5000 chiusi sotto i 14’, in 13:57, pochi giorni dopo che l’inglese Bannister era sceso sotto i 4 minuti nel miglio.

Il libro racconta queste ed altre vicende, diciamo così, collaterali, come una pazzesca maratona corsa a Vancouver nel corso di un meeting organizzato soprattutto per la sfida tra Bannister e Landy, l’altro corridore che era sceso sotto i 4’ (ma rivinse Bannister). In quella maratona si sfiorò il dramma: il primatista mondiale di allora (2.17:39), l’inglese Jim Peters, visse una storia simile a quelle di Pietri del 1908: entrato in pista con un vantaggio di 15 minuti sugli inseguitori, cadde ripetutamente, si rialzò, alla dodicesima caduta fu sorretto, impiegando 11 minuti a completare il giro. Vinse ma fu squalificato, e la notizia lo raggiunse in  ospedale dove giaceva fra la vita e la morte.

Torniamo a Zatopek, che ormai nella fase discendente della carriera (gli ultimi record furono sulle 15 miglia e i 25 km, nella stessa gara costruita su misura per lui nell’ottobre 1955) volle comunque partecipare alle olimpiadi di Melbourne 1956, solo per la maratona, di cui si è detto.

L’ultima vittoria fu ad una campestre in Spagna sui 10 km, nel 1958: e l’ultimo trofeo vinto lì fu un cane, Pedro, che rimase con la famiglia Zatopek fino alla morte.

Finito con le gare, venne anche il tempo della consapevolezza politica: nel 1968 Zatopek fu tra i firmatari del Manifesto a favore del primo ministro ceco Dubcek, che aveva avviato una progressiva democratizzazione del regime: ma l’invasione sovietica riportò il clima di oppressione solito, e Zatopek, che continuava a professarsi  comunista – come sempre - , fu espulso dal Partito e mandato a lavorare in miniera, dove ritrovò il suo allenatore Haluza. Può considerarsi un riscatto, dopo una vita cullata dai favori del regime, con più che un sospetto (non sottaciuto da Broadbent) di connivenza o di collaborazionismo.

La cosiddetta ‘riabilitazione’, per lui, Haluza e altri (compreso l’ex dissidente, e futuro presidente della Repubblica, Vaclav Havel)  avvenne solo dopo la caduta dei Muri. Ma Zatopek si spense pochi anni dopo.

Il libro è densissimo, per lunghi tratti avvincente (talora compare uno stile romanzato, se vogliamo un po’ all’americana e un po’ alla Federico Buffa, con salti cronologici, pause, flashback e anticipazioni), fondato su un’ampia documentazione e interviste ai protagonisti sopravvissuti. Ne risulta un ritratto a tutto tondo, non agiografico, di colui che è stato proclamato  «il più grande corridore di tutti i tempi»; ma anche un bel quadro di anni per qualche verso esaltanti, ma sotto altri aspetti bui, della nostra storia recente.

26 giugno - Le ‘feste mobili’ non sono solo la Pasqua e la Pentecoste, ma anche la sagra di Ganaceto, estrema frazione a nord del comune di Modena, al confine con Carpi (infatti ci passava la defunta maratona carpigiana, verso il km 27).

La chiesa di Ganaceto sarebbe dedicata a San Giorgio Martire, la cui festa cadrebbe il 23 aprile (e infatti a Ferrara in quei giorni si corre la Caminada par San Zorz); ma, col pretesto che San Giorgio è stato dichiarato dalla Chiesa santo abbastanza fasullo (la storia del suo martirio è un concentrato di leggende incredibili: prima uccide un drago, poi viene tre volte ucciso, resuscita tre volte e resuscita vari defunti, converte una imperatrice, alla fine è martirizzato sul serio ma prima fa morire 72 re…), a Ganaceto la sua sagra è diventata una festa mobile… Una volta si faceva di settembre (addirittura l’11 settembre 2001 eravamo lì a correre!) , ma siccome a settembre pioveva quasi sempre e ne scapitava la rituale cena all’aperto, la ricorrenza adesso è stata spostata a giugno.

Con tutto ciò, l’idea di creare una corsa a Ganaceto è stata una bella trovata della locale famiglia Ragazzi con l’aiuto della Podistica Cittanova; e con nostalgia ricordo quando, sul percorso primitivo, i chilometri erano segnati da cartelli con divertenti caricature e scritte dialettali. Ahimé, chi le ideò riposa da anni il sonno eterno, come William Govi che frequentava la corsa e la cena, salvo accorgersi al momento di pagare che non aveva i soldi…

Be’, l’associazione tra podisti e scrocconi si è purtroppo accentuata: basta guardare le foto di Teida Seghedoni per vedere quanta poca gente esibisse il pettorale. Non voglio dire che tutti quanti non l’avevano fossero dei portoghesi, evasori dell’ingente cifra di E. 1,50 che dava diritto a un chilo di farina (e ad un ristoro finale dove come sempre troneggia la frutta estiva). Però il sospetto su vari recidivi rimane.

Del resto, la gara rientra in quelle pacifiche adunate estive senza classifiche, dove ognuno parte quando gli pare (vedere anche qui le prime foto), alcuni inalberano i bastoncini – non si capisce se per simulare un fitwalking o ad uso stampelle -, altri tentano per l’ennesima volta di ‘imbarcare’, e alla fine sono contenti se hanno passato mezz’ora affiancati a una donna, il cui ricordo li consolerà nel tornare all’ovile dove li aspetta la moglie obesa e poco incline a concessioni.

Il podismo è diventato un’attività a sfondo sociale, bisognerebbe includerlo nei bonus di cittadinanza, di cui si favoleggia sperando che i soldi arrivino dal drago di San Giorgio, o da quelli che risparmieranno i tedeschi non dovendoli più spendere negli alberghi russi.

Tristezze e ironie a parte, dirò che il percorso ‘lungo’  nuovo (inaugurato l’anno passato) è abbastanza gradevole, spingendosi a sud fino alle porte di Campogalliano così da superare i 10 km effettivi.  Attraversa una frazione dal divertente nome di Saliceto Buzzalino (dove nei tempi andati anche quella sagra beneficiava di una corsa podistica, a iscrizione gratuita e premiata con un sacchetto di mele); sottopassa l’Alta velocità (che qui fa un giro vizioso, dicono imposto dai politici ancora per poco al potere, per evitare l’impatto con la sede del festival dell’Unità; con l’aggiunta delle Belle Arti che hanno salvato la casa di Giangi: tant’è vero che i treni da Milano, stabili sui 300 all’ora fino a Reggio, da questo punto non toccano più nemmeno i 250 preparandosi a perforare la montagna dei rifiuti che li aspetta, sempre a causa del giro vizioso, dopo pochi km); i podisti invece fanno un paio di km sterrati, tra campi di frumentone ormai alti, fabbrichette o fattorie più o meno dismesse, e ritornano sull’asfalto a un km dalla chiesa parrocchiale e dal ritrovo.

Presenti, data la vicinanza da Carpi, molti carpigiani, lasciati liberi dal giro delle quattro frazioni che l’anno scorso si correva proprio in questi giorni mentre quest’anno is blowing in the wind: tra essi, nella foto  49 mi sembra di riconoscere il dottor Guaitoli, decano del podismo modenese perché indossa le scarpette dal 1972. C’erano anche reggiani, addirittura la Daniela da Reggiolo compaesana di Morselli (foto 282); e, tra i modenesi, la “dott.” honoris causa Tatiana (la più alta nella foto 173), cui i podisti devono riconoscenza perenne perché l’anno scorso soccorse e salvò la vita a un corridore in arresto cardiaco.

Sotto l’aspetto organizzativo, tutto in regola: parcheggio dedicato, segnalazioni, addetti, ristoro intermedio, accoglienza al traguardo - docce comprese -. In più le foto itineranti di Teida, cui vadano i nostri auguri per il figlio Gabriele ricoverato in ortopedia a Mirandola (perché nei due ospedali di Modena e in quello di Carpi non c’era posto! Questa è la Padania felix), in attesa di intervento. I cieli e la terra passeranno; passerà anche questa, coraggio.

La rinascita della maratona di Bologna è rinviata non si sa a quando. Questo il comunicato di Claudio Bernagozzi apparso da qualche ora sul suo sito:

Maratona di Bologna ... IO non ci sono riuscito. SCUSATE !!!

Forse, ingenuamente, ho pensato di poter rifare come con la prima BolognaMaratona del 1987, che mettemmo in campo in soli 8 mesi !!!
Invece dopo 638 giorni nei quali ho cercato di far partire il mio “Progetto Maratona di Bologna”, senza risultato e di certo per colpa mia perchè ho sbagliato a puntare solo sull’esperienza, la tecnica e le conoscenze della materia mia e di tanti validi ed esperti Amici (che ringrazio per la grande disponibilità e competenza) e non su un diverso tipo di approccio con l’Amministrazione ed il Movimento Podistico ...

LASCIO AD ALTRI PROSEGUIRE NEL PROGETTO

Esco con un po’ di amaro in bocca ma certo di aver fatto tutto quanto nelle mie possibilità.

Sono più che sicuro che il Gruppo Organizzatore riuscirà così ad attuare il Progetto, trovando collaborazioni, realtà e appoggi giusti e che la Maratona potrà finalmente tornare.

Bologna se lo merita e io ne sarei tanto, tanto felice.

16 giugno - “Da chi hai saputo di questo evento?”, ci chiedono a volte i siti di manifestazioni sportive. Rispondo che un po’ di passaparola mi era giunto, dall’ambiente dei supermaratoneti, specialmente in occasione del precedente evento similare organizzato da Enrico Vedilei ai primi di febbraio, tra Bagnacavallo e Alfonsine: me ne avevano parlato come di un allestimento molto divertente e in un simpatico ambiente rurale. Poi la cosa si era un po’ persa: la maggior parte dei supermaratoneti, dopo la 4 giorni di Orta, è migrata in Puglia per la gara ‘ufficiale’ di Cagnano Varano; e confesso che, dopo la mezza follia del sabato precedente, e avendo durante la settimana corso solo 10 km, mi stavo preparando a un fine settimana di quasi-riposo ovvero di blando recupero delle fibre muscolari avariate.

“E dove vado?”, mi sono chiesto a mezzogiorno di venerdì. Per un quadro completo mi sono rivolto al calendario di Podisti.net, e mi è apparsa tra le prime questa gara di Castelbolognese, terra famosa un tempo presso i calciofili per essere la patria di Mondino Fabbri, mister-Corea alias ‘tetnico del tortelino’ come lo chiamava Gianni Brera; e famosa oggi presso gli ultramaratoneti per la sua 50 km di Romagna, da sempre prova generale un mese prima del ‘Passatore’.

Rapida telefonata al vecchio amico Vedilei (tecnico della nazionale di ultramaratona), da cui ricevo l’arrivederci a domani. Rassicuro mia moglie che vado là solo per bere un po’ di birra, partecipare alla salsicciata finale e fare pochi giri: lei fa finta di crederci e mi accompagna.

C’è anche un pretesto culturale: è l’ultima settimana di apertura della grande mostra di pittura da Michelangelo a Caravaggio, a Forlì (una cittadina bruttina e tutta ducesca, ma che per le sue iniziative culturali sta molto avanti a quasi tutte le sue consorelle regionali, soprattutto a Modena che è la più scarsa di tutte): sono 25 km in più ma vale davvero la pena. Come non è sprecata nemmeno una passeggiata per il centro storico di Imola, che non si vergogna di esporre in pieno centro dei bassorilievi chiaramente di regime senza scalpellare la scritta DVX, e la cui biblioteca è forse la più adatta agli studenti e la meglio organizzata dell’area di Bologna (oltre che, diceva la vecchia sovrintendente regionale alle biblioteche, ad annoverare la più bella bibliotecaria di tutta la regione).

E bisogna ammettere che quanto a belle donne, questa trasferta di Castelbolognese non lascia delusi. Chi scrive, quando va a correre, va a correre e basta (a differenza di molti colleghi delusi dalla vita, che sperano in un ribaltone solo per aver porto il bicchiere del tè alla fighetta affiancata); ma certo, arrivare in zona ritrovo e trovarsi di fronte all’opulenza di Luisa Betti o a quella vivente statua di Canova che è Eleonora Corradini (e non solo lei), sa renderti gradevole persino una corsa all’inferno (“si nun ce trovo a ttia, mancu ce trasu”).

E qui, di inferno non ce n’era neanche un po’: se in città si stava attorno ai 30 gradi, lì presso l’azienda agricola Montanari, in riva al fiume Senio, la campagna e le intermittenti alberature mitigavano l’arsura; al resto, provvedeva la birra che era fortemente consigliato bere ad ogni passaggio presso il traguardo del circuito di 2638 metri.

Mi spiego: alla gara ufficiale, su circuito, dove vince chi dopo 6 ore ha fatto più giri, si aggiungeva quella cosiddetta ‘goliardica’: ogni birra bevuta al passaggio dà un bonus di 1 km; ma se non bevi almeno una birra ogni 3 giri, riceverai un km di penalità. Guardando le classifiche, constato che ben pochi si sono astenuti dal farsi la loro birretta (vedi foto 10); magari non ad ogni giro, ma considerando che si partiva alle 14, questo tipo di ristoro (alla spina e freschissimo sempre) diventava molto desiderabile. Naturalmente restavano a disposizione anche gli ‘abbeveraggi’ normali, le bevande e frutta solite, più qualche verdura un po’ meno usuale (pomodori, carote, cetrioli), e da metà corsa anche dei rotoloni di salsiccette, sotto la supervisione di altre gloriose ultramaratonete, come le sorelle Costetti (con Franca fui immortalato nella copertina patinata di un mensile dopo la prima maratona di San Marino), e Anna Zacchi del cui passo sospinto non si sono dimenticate le cronache del Passatore.

A proposito: alla gara ha assistito “Pirì” Crementi, classe 1931 e fondatore della 100 km più famosa d’Italia (vedi foto 11-12); e naturalmente vi hanno preso parte attiva molti habitués di quella corsa, come i coniugi barlettani Rizzitelli/Gargano (qui quasi ’di passaggio’ in attesa del treno notturno che li avrebbe portati nel foggiano per la maratona dell’indomani mattina), o Massimo Morelli, o il redivivo Giordano Lucidi da Treia, antico rivale di Govi e di ‘monsignor’ Fusari in maratone di vent’anni fa. Sospetti più che fondati, sebbene mai confermati dall'interessato, asseriscono che da Giordano partì quel certo attestato, candidamente bevuto e pubblicato da "Correre", secondo cui il maratoneta più prolifico dell'anno era non Govi, 'fermo' a sole 32 maratone, ma il povero e ignaro Sante Facchini, che ne avrebbe corse 33. Questa è storia.

E tornando all'oggi cito Ilaria Pozzi (foto 14), anni 40, che nel 2017 alla 24 ore di Cesano aveva coperto 181 km, e qui ha gareggiato in una condizione straordinaria, vale a dire al sesto mese di gravidanza, compiendo 17 giri cioè quasi 46 km (che, aggiungendo una birra a giro, diventano 63 km).

Da notare che il percorso era completamente sterrato, e se per circa metà si svolgeva sull’argine del fiume, in una pista il cui fondo era paragonabile ai vecchi campi da bocce, per il resto era su un ‘’caradone’ di campagna, dove il drenaggio era garantito da sassi appuntiti, non precisamente una delizia per le piante dei nostri piedi, che specialmente nella seconda parte tendevamo a risparmiare camminando senza calcare troppo.

Due classifiche, dunque: quella ‘seria’ vede vincitore Stefano Farina (che non poteva non appartenere alle società del Passatore), che ha corso per 26 giri cioè 68,6 km; tra le donne, l’agilissima Elena Di Vittorio (foto 18, che di Podisti.net stima il dire pane al pane senza censure), la quale con passo felpato ne ha compiuti 23 (circa 60,7 km), come due soli altri maschietti: Marco Mazzanti del Passo Capponi, e Simone Assirelli, un altro del Passatore.

Ma se passiamo alla classifica “con birre”, ecco che Elena grazie alla sua regolare birra ogni giro ‘guadagna’ altri 23 km e affianca al primo posto assoluto Marco Mazzanti, anche lui bevitore regolare (vedi foto 18-20); mentre il vincitore coi piedi, Farina, che ha bevuto ‘solo’ 13 birre, passa al terzo posto; e il quasi astemio Assirelli si becca addirittura delle penalizzazioni (come in tutto appena 5 degli 85 classificati) scivolando al tredicesimo posto.

Torniamo alla classifica ‘sportiva’ per completare il podio femminile: la Di Vittorio è seguita a un solo giro dalla mugellana Sabrina Gargani (58 km), e a tre giri da Chiara Barassi (52,7 km): rispettivamente 21 e 18 le birre bevute dalle due concorrenti, dunque immutate le posizioni anche nella graduatoria alcoolica. Luisa Betti è quarta coi piedi, ma… non beve mai e dunque si trova penalizzata di 6 km, addirittura 20^ su 23 donne; quei 6 km che invece guadagna Eleonora Corradini, la cui maratona netta (42,208 secondo la misurazione precisa) viene elevata ai 48 km virtuali.

La festa finisce, dopo una lavatura molto sommaria con l’acqua di una gomma, e dopo che ho offerto un mio piede dolorante alla visita medica del dottor Rizzitelli (che qui mi ha dato ‘solo’ un giro insieme all’avvocato Tundo: vedi foto 16), con una tavolata a base di salsicce e altri generi di conforto (oltre alla birra appare anche il vino) sotto un favoloso cielo stellato in cui la sottile falce della luna nuova sembra giocare all’inseguimento con Venere luminosissima che la incalza da ovest.

Alla famiglia Vedilei l’onere di preparare le classifiche (svolto in due tempi, ma tutto perfezionato entro l'alba di lunedì) e sottoporle agli enti vari che, se vorranno, le omologheranno per le famose maxiclassifiche; a noi resta comunque molta polvere, molta birra e molta allegria.

 

Foto maliziosamente assemblate da R. Mandelli:

http://www.podisti.net/index.php/component/k2/item/1785-16-06-2018-castel-bolognese-ra-4-6-ore-della-birra-foto-di-fabio-marri.html

 

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