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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

16 giugno - “Da chi hai saputo di questo evento?”, ci chiedono a volte i siti di manifestazioni sportive. Rispondo che un po’ di passaparola mi era giunto, dall’ambiente dei supermaratoneti, specialmente in occasione del precedente evento similare organizzato da Enrico Vedilei ai primi di febbraio, tra Bagnacavallo e Alfonsine: me ne avevano parlato come di un allestimento molto divertente e in un simpatico ambiente rurale. Poi la cosa si era un po’ persa: la maggior parte dei supermaratoneti, dopo la 4 giorni di Orta, è migrata in Puglia per la gara ‘ufficiale’ di Cagnano Varano; e confesso che, dopo la mezza follia del sabato precedente, e avendo durante la settimana corso solo 10 km, mi stavo preparando a un fine settimana di quasi-riposo ovvero di blando recupero delle fibre muscolari avariate.

“E dove vado?”, mi sono chiesto a mezzogiorno di venerdì. Per un quadro completo mi sono rivolto al calendario di Podisti.net, e mi è apparsa tra le prime questa gara di Castelbolognese, terra famosa un tempo presso i calciofili per essere la patria di Mondino Fabbri, mister-Corea alias ‘tetnico del tortelino’ come lo chiamava Gianni Brera; e famosa oggi presso gli ultramaratoneti per la sua 50 km di Romagna, da sempre prova generale un mese prima del ‘Passatore’.

Rapida telefonata al vecchio amico Vedilei (tecnico della nazionale di ultramaratona), da cui ricevo l’arrivederci a domani. Rassicuro mia moglie che vado là solo per bere un po’ di birra, partecipare alla salsicciata finale e fare pochi giri: lei fa finta di crederci e mi accompagna.

C’è anche un pretesto culturale: è l’ultima settimana di apertura della grande mostra di pittura da Michelangelo a Caravaggio, a Forlì (una cittadina bruttina e tutta ducesca, ma che per le sue iniziative culturali sta molto avanti a quasi tutte le sue consorelle regionali, soprattutto a Modena che è la più scarsa di tutte): sono 25 km in più ma vale davvero la pena. Come non è sprecata nemmeno una passeggiata per il centro storico di Imola, che non si vergogna di esporre in pieno centro dei bassorilievi chiaramente di regime senza scalpellare la scritta DVX, e la cui biblioteca è forse la più adatta agli studenti e la meglio organizzata dell’area di Bologna (oltre che, diceva la vecchia sovrintendente regionale alle biblioteche, ad annoverare la più bella bibliotecaria di tutta la regione).

E bisogna ammettere che quanto a belle donne, questa trasferta di Castelbolognese non lascia delusi. Chi scrive, quando va a correre, va a correre e basta (a differenza di molti colleghi delusi dalla vita, che sperano in un ribaltone solo per aver porto il bicchiere del tè alla fighetta affiancata); ma certo, arrivare in zona ritrovo e trovarsi di fronte all’opulenza di Luisa Betti o a quella vivente statua di Canova che è Eleonora Corradini (e non solo lei), sa renderti gradevole persino una corsa all’inferno (“si nun ce trovo a ttia, mancu ce trasu”).

E qui, di inferno non ce n’era neanche un po’: se in città si stava attorno ai 30 gradi, lì presso l’azienda agricola Montanari, in riva al fiume Senio, la campagna e le intermittenti alberature mitigavano l’arsura; al resto, provvedeva la birra che era fortemente consigliato bere ad ogni passaggio presso il traguardo del circuito di 2638 metri.

Mi spiego: alla gara ufficiale, su circuito, dove vince chi dopo 6 ore ha fatto più giri, si aggiungeva quella cosiddetta ‘goliardica’: ogni birra bevuta al passaggio dà un bonus di 1 km; ma se non bevi almeno una birra ogni 3 giri, riceverai un km di penalità. Guardando le classifiche, constato che ben pochi si sono astenuti dal farsi la loro birretta (vedi foto 10); magari non ad ogni giro, ma considerando che si partiva alle 14, questo tipo di ristoro (alla spina e freschissimo sempre) diventava molto desiderabile. Naturalmente restavano a disposizione anche gli ‘abbeveraggi’ normali, le bevande e frutta solite, più qualche verdura un po’ meno usuale (pomodori, carote, cetrioli), e da metà corsa anche dei rotoloni di salsiccette, sotto la supervisione di altre gloriose ultramaratonete, come le sorelle Costetti (con Franca fui immortalato nella copertina patinata di un mensile dopo la prima maratona di San Marino), e Anna Zacchi del cui passo sospinto non si sono dimenticate le cronache del Passatore.

A proposito: alla gara ha assistito “Pirì” Crementi, classe 1931 e fondatore della 100 km più famosa d’Italia (vedi foto 11-12); e naturalmente vi hanno preso parte attiva molti habitués di quella corsa, come i coniugi barlettani Rizzitelli/Gargano (qui quasi ’di passaggio’ in attesa del treno notturno che li avrebbe portati nel foggiano per la maratona dell’indomani mattina), o Massimo Morelli, o il redivivo Giordano Lucidi da Treia, antico rivale di Govi e di ‘monsignor’ Fusari in maratone di vent’anni fa. Sospetti più che fondati, sebbene mai confermati dall'interessato, asseriscono che da Giordano partì quel certo attestato, candidamente bevuto e pubblicato da "Correre", secondo cui il maratoneta più prolifico dell'anno era non Govi, 'fermo' a sole 32 maratone, ma il povero e ignaro Sante Facchini, che ne avrebbe corse 33. Questa è storia.

E tornando all'oggi cito Ilaria Pozzi (foto 14), anni 40, che nel 2017 alla 24 ore di Cesano aveva coperto 181 km, e qui ha gareggiato in una condizione straordinaria, vale a dire al sesto mese di gravidanza, compiendo 17 giri cioè quasi 46 km (che, aggiungendo una birra a giro, diventano 63 km).

Da notare che il percorso era completamente sterrato, e se per circa metà si svolgeva sull’argine del fiume, in una pista il cui fondo era paragonabile ai vecchi campi da bocce, per il resto era su un ‘’caradone’ di campagna, dove il drenaggio era garantito da sassi appuntiti, non precisamente una delizia per le piante dei nostri piedi, che specialmente nella seconda parte tendevamo a risparmiare camminando senza calcare troppo.

Due classifiche, dunque: quella ‘seria’ vede vincitore Stefano Farina (che non poteva non appartenere alle società del Passatore), che ha corso per 26 giri cioè 68,6 km; tra le donne, l’agilissima Elena Di Vittorio (foto 18, che di Podisti.net stima il dire pane al pane senza censure), la quale con passo felpato ne ha compiuti 23 (circa 60,7 km), come due soli altri maschietti: Marco Mazzanti del Passo Capponi, e Simone Assirelli, un altro del Passatore.

Ma se passiamo alla classifica “con birre”, ecco che Elena grazie alla sua regolare birra ogni giro ‘guadagna’ altri 23 km e affianca al primo posto assoluto Marco Mazzanti, anche lui bevitore regolare (vedi foto 18-20); mentre il vincitore coi piedi, Farina, che ha bevuto ‘solo’ 13 birre, passa al terzo posto; e il quasi astemio Assirelli si becca addirittura delle penalizzazioni (come in tutto appena 5 degli 85 classificati) scivolando al tredicesimo posto.

Torniamo alla classifica ‘sportiva’ per completare il podio femminile: la Di Vittorio è seguita a un solo giro dalla mugellana Sabrina Gargani (58 km), e a tre giri da Chiara Barassi (52,7 km): rispettivamente 21 e 18 le birre bevute dalle due concorrenti, dunque immutate le posizioni anche nella graduatoria alcoolica. Luisa Betti è quarta coi piedi, ma… non beve mai e dunque si trova penalizzata di 6 km, addirittura 20^ su 23 donne; quei 6 km che invece guadagna Eleonora Corradini, la cui maratona netta (42,208 secondo la misurazione precisa) viene elevata ai 48 km virtuali.

La festa finisce, dopo una lavatura molto sommaria con l’acqua di una gomma, e dopo che ho offerto un mio piede dolorante alla visita medica del dottor Rizzitelli (che qui mi ha dato ‘solo’ un giro insieme all’avvocato Tundo: vedi foto 16), con una tavolata a base di salsicce e altri generi di conforto (oltre alla birra appare anche il vino) sotto un favoloso cielo stellato in cui la sottile falce della luna nuova sembra giocare all’inseguimento con Venere luminosissima che la incalza da ovest.

Alla famiglia Vedilei l’onere di preparare le classifiche (svolto in due tempi, ma tutto perfezionato entro l'alba di lunedì) e sottoporle agli enti vari che, se vorranno, le omologheranno per le famose maxiclassifiche; a noi resta comunque molta polvere, molta birra e molta allegria.

 

Foto maliziosamente assemblate da R. Mandelli:

http://www.podisti.net/index.php/component/k2/item/1785-16-06-2018-castel-bolognese-ra-4-6-ore-della-birra-foto-di-fabio-marri.html

 

13 giugno. Sul sito Uisp “Atleticando”, ma non sul volantino cartaceo (peraltro rarissimo), si presentava come seconda edizione. Non ho trovato quando si sia svolta la prima: lo stesso sito Atleticando, per l’anno scorso, segna sia la classica Vezzano-Canossa (cioè la madre di questa corsa, che però vanterebbe anche una ‘nonna’ nel percorso primitivo della “Matildica” di Montecavolo) annullata un anno fa per pioggia quando eravamo già sulla linea di partenza (“vi vogliamo bene!”, fu il ritornello dell’inappuntabile speaker Brighenti), sia la corsa “di recupero”, disputata il 30 agosto ma con partenza e arrivo dallo stesso castello di Canossa.

Con nostalgia riapro le agende personali e trovo di aver partecipato il 29 giugno 1991 al “4° Palio di Matilde”, con partenza da Vezzano sul Crostolo (versante nord-est della rupe, anziché nord-ovest come oggi), e strada allora in buona parte sterrata, coi suggestivi lumi a petrolio accesi all’imbrunire. Nel 2001 era data come 12° edizione, io stavo alla quinta partecipazione (la gara era stata interrotta e poi ripresa), e Podisti.net aveva vari suoi rappresentanti col pettorale spillato…

Poi la corsa subì varie vicissitudini, il percorso fu cambiato (per un paio di volte si passò anche dal villaggio ‘arancione’ di Votigno, con un avant-indré non molto gradito), la strada venne pian piano asfaltata (ricorrenti frane a parte), un anno arrivammo a Rossena anziché a Canossa, ci furono varie interruzioni che forse non hanno contribuito a ‘fidelizzare’ i partecipanti. Quindi non so a che numero saremmo se agli organizzatori (sempre gli stessi, da Manelli e signora alla Scandianese tutta, dai fratelli Iotti alle dinasty Davoli e Mainini) non piacesse ogni tanto di rinumerare e ricominciare da uno. Nelle accademie ufficiali e in certe riviste solenni sogliono scrivere “numero 25, secondo della quarta serie”, come forse potrebbe farsi in questo caso.

Dato più sicuro, con questa partecipazione penso di essere arrivato a 12: più di me, tra i non reggiani, forse solo Giuseppe Cuoghi, classe 1947, che stavolta ha addirittura rischiato di battermi… Però nel 1991 fummo classificati in 384, adesso eravamo quasi la quarta parte di allora: malgrado la brillante idea di inserire la corsa nel trittico notturno reggiano, che fa venire qua anche dei ‘forzati’ che forse non la inserirebbero se fosse l’unica.

Un’altra ragione del risultato numericamente deludente va forse cercata nei meteo-astrologi, che dal giorno prima hanno cominciato a tambureggiare le loro allerta gialle, e fino alle ore 17 continuavano concordemente a prevedere piogge leggere su San Polo dalle 17, temporali più pesanti dalle 21 (ora d'inizio), e bufere epiche dalle 23. Gli allievi e imitatori della famiglia Giuliacci sono tanti, invasivi e contaballe (se non altro, sulle tv nazionali prosperano le fighette di bella presenza; su quelle locali la tendenza è invece verso il similgay che gesticola); e purtroppo, in questo mondo in cui si crede a tutto, e più coglionate si dicono più si ha successo, trovano dei fedeli credenti anche loro. Quanti sono rimasti a casa?

Io ho deciso di andare, assistendo a San Polo a un tramonto quasi afoso, e durante la salita a una notte stellata come era accaduto raramente durante i 27 anni precedenti. Il percorso, dato di 10,5 km (ma in altre fonti di 10,0) al mio Gps risulta di 9,730; il dislivello in salita sta sui 450 metri, considerando anche la lieve discesa dei km 8-9; più pedalabile rispetto al versante classico, però con un discreto muro ai km 6-7 dopo il passaggio dal villaggetto di Grassano.

Begli scorci panoramici, soprattutto sul castello di Rossena, tutto illuminato e da dove provengono rulli di tamburi per l’ennesima festa pseudo-matildica (è triste invece il buio in cui è lasciata Canossa, essendo da tempo chiuso e in vendita anche l’ultimo bar: che tempi, quando c’era una tavolata gestita dagli alpini e frequentatissima!).

Siamo in pochi, malgrado il costo d’iscrizione abbordabile (5 euro, saliti a 8 negli ultimi due giorni, più eventuali 3 per il ritorno in bus), confortati da un ‘pacchetto-gara’ con l’ennesima bottiglia di aceto balsamico industriale (malgrado i regali fatti ai figli, nella mia cantina ce ne sono attualmente 21) e un cd di musica rock recente. Ma ovviamente quello che conta e che costa è il percorso ben segnalato e protetto dal traffico, l’assistenza medica, i due ristori intermedi e quello finale, il cronometraggio, le trasferte dei cronometristi e giudici e speaker ecc.

La lotta di testa riguarda due habitués di queste gare, Andrea Bergianti che prevale di 5 metri su Luca De Francesco (accreditato dello stesso tempo di 39:16); a un minuto e mezzo Claudio Costi, un altro minuto dietro Gianmatteo Reverberi, che vidi, ragazzino, scalzare Morselli dal trono dei retrorunner nazionali, e ore vedete nella foto 38 di Nerino.

Non c’è nessuna lotta nel settore femminile: quando si iscrive Isabella Morlini, le avversarie prosciuttofile si defilano, mentre una sportiva autentica come la ragioniera e mamma reggiolese Rita Bartoli è ugualmente della partita e ha preso ‘solo’ tre minuti dalla docente campionessa (settima assoluta sotto i 43’: foto 41, Rita alla foto 48). Altri 2 minuti e arriva la terza, Eleonora Turrini che sta proprio a San Polo.

Poi ci siamo noi, venuti più da lontano, come Gianluca Spina, sassolese,  figlio di uno dei due fotografi e di Cecilia, altra assiduissima a queste gare. In 85 stanno sotto l’ora, dopo di che seguono gli ultra-dilettanti col mio altre volte compagno Ideo (foto 128); le nostre lucine sparpagliate si confondono con le lucciole sempre affezionate a questo giro.

In fondo a tutti, risale a passo d’uomo il lampeggiante blu che segue la mamma di Gianluca (la quale oggi fa la scorta al più anziano del lotto, il cioccolatiere formiginese Luigi Bandieri, anni 81), e quattro ‘ragazze’ di Scandiano (la più giovane fa 42 anni), cui si accoda nell’ultimo tratto Francesca Davoli, storica segretaria della maratona di Reggio.

Questa foto, tra quelle inviatemi da Italo (marito e padre, come si diceva; qui sotto nelle foto 3 e 4) ho scelto per la copertina: le ultime arrivate a Canossa, speriamo non le ultime di una bella storia che dura da trent’anni.

 

Servizio fotografico completo di Nerino Carri:

http://foto.podisti.net/p304771829

Classifica:

 http://www.podisti.net/index.php/classifiche/3635-2-san-polo-canossa.html?date=2018-06-13-00-00

 

 

C’è poco da dire: ai confini tra Bellunese, Südtirol e Carnia si trovano le Dolomiti più favolose: se fai un trail da queste parti, sei sicuro che ti aggirerai fra panorami (questì sì, una volta tanto tiro fuori anch’io l’abusato aggettivo) mozzafiato: sia perché in certi punti, o forse quasi in ogni momento, l’imponenza delle cime e la varietà rigogliosa delle valli ti obbligano a fermarti per ammirare; sia perché, per raggiungere quei punti, la fatica è tale che spesso devi fermarti, gravare con le ascelle sui bastoncini, far calare un po’ i battiti, bere.

La Val Zoldana, bella fino alla commozione, è tuttavia più da intenditori che da turismo di massa: schiacciata com’è tra il Cadore, Cortina, la zona del Falzarego e del Giau, l’Agordino, l’Alleghese,  forse troppo bassa per impedire il superamento dei 30 gradi da giugno ad agosto (i maggiori agglomerati, compreso il capoluogo Forno di Zoldo, stanno intorno agli 800-900 metri), è relativamente meno frequentata, e anche meno attrezzata turisticamente salvo le sei settimane di punta. Chi ci viene anche fuori stagione lamenta negozi e ristoranti chiusi; e infatti, in questo secondo weekend di giugno, l’arrivo di un migliaio di podisti più le loro famiglie riempie tutti i buchi da Longarone in su, e addirittura induce gli amministratori locali a istituire un senso unico alternato in centro con semaforo che genera qualche coda, sebbene il traffico qui sia piuttosto modesto.

E, dicevo, qualunque percorso off road si possa scegliere, avremo sempre un’esperienza – oltre che una fatica – indimenticabili. A Forno e dintorni è stato tracciato da alcuni anni l’ “anello zoldano”, unendo i vari sentieri che si abbarbicano tra la lunghissima catena di Tamer- Moiazza- Civetta (paradiso dei ferratisti) a sudest, e il Pelmo a nord (nel mio giudizio molto opinabile, il Pelmo è la più bella cima di tutte le Dolomiti: quando ti spunta dopo una svolta del sentiero, non puoi fare a meno di fermarti, guardare, fotografare, e ti viene letteralmente un groppo in gola: ecco cos’è il “mozzafiato”).

L’idea base degli organizzatori zoldani è stata di trasformare l’Anello in un trail, lungo 53 km con circa 3800 m di dislivelli e una punta massima che malgrado il nome di “Busa” sta a 2360 metri, cioè 1530 sopra la partenza, da scalare in circa 20 km con l’intermezzo di una ‘cimetta’ intermedia a 2050 metri. Insomma, si può fare.

Poi, la malattia che sta pervadendo tutti gli organizzatori di trail (è successo così anche nella confinante Lavaredo) ha portato a raddoppiare il giro originale, istituendo una gara davvero “Extreme” di 103 km con 7000 metri di cosiddetto D+, e una trentina d’ore assegnate per completarla. A Cortina hanno avuto un successo strepitoso, e come al Monte Bianco, riescono ad assegnare sì e no la metà dei posti che sarebbero richiesti. A Zoldo siamo ancora agli inizi, e insomma gli iscritti alla gara massima sono stati 295, a quella ‘media’ 361, e 196 alla ‘corta’ di 23 km, in realtà una ventina, con un migliaio di metri ‘tranquilli’ da saliscendere: ce la commenta ora il giovane amico Alessandro Porcelli da Cornaredo:

http://www.podisti.net/index.php/commenti/item/1718-forno-di-zoldo-bl-dolomiti-extreme-trail.html

Il trail è un fenomeno in ascesa, e mentre nelle corse su strada l’età media dei partecipanti sta salendo in modo preoccupante (dalla maratona in su, le categorie dai 50 anni e oltre stanno in maggioranza schiacciante, e il livello tecnico va di conseguenza: se Calcaterra al Passatore ha trovato un rivale, nemmeno di primo pelo, solo dopo 12 anni, significa che quasi non esistono giovani leve), nei trail invece viene gente giovane e a volte giovanissima (ho fatto compagnia per molti km a una coppia di russi, Sergiey e Natalia, lei davvero bellissima ventiquattrenne, lui sei mesi in più!), e molto tosta, a cui noi ex stradisti dobbiamo solo cedere con ammirazione il passo quando saltabeccano su sentieri sassosi nei quali noi a stento mettiamo un piede dopo l’altro: e pensare che loro, nel sorpassarci, ci applaudono e dicono ‘bravò!”.

Ma a Zoldo, oltre che soddisfare le ‘richieste’ o mode del presente, pensano anche al futuro: e devo dire che non ho mai visto in nessun posto una corsa per bambini, anche piccolissimi, di circa due km con salite e discese e ostacoli vari, come quella organizzata la domenica mattina e frequentata da ben 182 frugoli incantati e incantevoli: e qui, il vostro vecchio e consumato podista, tornato sul traguardo che aveva varcato con un pettorale indosso la sera prima, confessa di avere sentito un secondo groppo in gola.

Non morirà del tutto il podismo finché qualche organizzatore sensibile allestirà, oltre ai giri super-extreme-ultra-mega-galactic, anche queste manifestazioni sicuramente in rimessa economica, ma apportatrici di amore e gioia.

Torniamo a noi: il comunicato ufficiale vi ha già informato sui risultati dei primi, con l’incredibile rimonta del vincitore, uno svedese che si è permesso di sbagliare percorso perdendo almeno una ventina di minuti, poi recuperare, riprendere tutti (anche… me! Stavo scendendo la lunga carraia che ci porta al traguardo, 4-5 km a monte, in compagnia di un argentino dal nome celebre di Monetti cui avevo recuperato 12 minuti negli ultimi 10 km, quando sento parlottare in tedesco alle mie spalle. Ecco due pettorali rossi – i nostri erano blu -, che si ricongiungono al giro ’medio’ sull’ultima asperità: sono appunto lo svedese e il tedesco ex capofila, ma che al traguardo beccherà 3 minuti).

Dopo una ventina di minuti arrivo anch’io a Zoldo e mi mostrano le foto dello svedese che percorre gli ultimi metri coi suoi bambinetti (per fortuna non c’erano quegli arcigni giudici Fidal che avrebbero squalificato tutti): ennesimo groppo in gola e occhi un po’ umidi (dite pure che era la pioggia).

 

Torniamo indietro, alla vigilia della gara: ritiro pettorali e controllo minuzioso del materiale obbligatorio, uguale per i 53 e i 103 salvo che noi non siamo tenuti alle lampade, essendo il nostro arrivo imposto entro le 19: simpatica la ragazza che mi controlla, si fa persino fotografare (ci abbracceremo al ristoro finale, 24 ore dopo). Cambio di programma dovuto alla neve alta che rende impraticabile il sentiero Angelini-Tivan, balconata del Civetta, oltre quota 2000: dopo la Forcella della Grava, circa km 22, e l’attraversamento di alcuni campi di neve, ci faranno scendere fino al villaggio di Pecol, cioè a 1400 metri, dopo 27 km, e poi da lì riguadagnare il percorso originario risalendo una lunghissima pista da sci fino ai 1920 metri del Col dei Baldi: ci schiveremo un tratto un po’ accidentato, ma allungheremo di circa 2 km senza perdere molto quanto a dislivello complessivo (il mio Gps si blocca dopo 24 km, a quota 1450, quando il D+ è già quantificato in 2000 metri).

Sarà forse anche per questo che il cancello delle 9 ore al km 37 (la mitica Forcella Staulanza di tanti Giri d’Italia e di qualche trail tra Pelmo e Civetta) viene un tantino ‘socchiuso’, e la consegna del pacco gara (un paio di belle scarpe da trail che in negozio sono vendute a 70 euro), prima subordinata al superamento del cancello, avviene invece per tutti nel pre-gara. Il regolamento, d’altronde, consente anche a chi si trova provvisoriamente fuori tempo massimo di proseguire, dunque chi ne ha si accomodi (non così ci trattarono a un certo Salomon trail dalle parti di Canazei, e ad un “Sentiero 4 luglio” in zona Aprica).

All’alba si parte: i super-super vanno via alle 5, noi alle 5.30 (orario profanato da troppi eventi che con lo sport hanno poco in comune, e qui invece consacrato, come anche alla TDS di Courmayeur). Primo tratto, fino al Passo Duran del km 12.5 (i super-super hanno già 14 km in più), semplicemente delizioso; più problematico il secondo, che dopo una salita a tratti alpinistica fino al Bivacco Grisetti a quota 2050 (a un certo punto una ragazza mi si accoda dicendo che vuol vedere dove metto le mani io per tirarmi su), si chiude al km 20 della Casera  Grava, con secondo ampio ristoro. Poco avanti comincia la neve e il tratto ‘deviato’ di cui sopra; al rientro sulla retta via, la Malga Pioda dove si dovrebbe stare entro le 8 ore (ma in realtà non ci sono rilevamenti, solo il quarto grande ristoro), ci cominciamo a preoccupare perché mancano ancora 8 km alla Staulanza e ci sono tre cimette da fare, la più alta (Monte Crot, zona di guerra, trincee, cannoni) con un dislivello di 600 metri.

Pazienza, ci diciamo tra compagni ritardatari (ricordo tre ragazze, Annalisa, Cristina, Melita): se ci bloccano hanno ragione, se possiamo tiriamo diritto. Alla Staulanza, il vecchio amico Olivier (un trailer in gambissima, belga trasferito a Mirandola, con cui ci conosciamo da quarant’anni e qui correrà i 23 perché ha un paio di progetti grandiosi a breve) mi riempie la borraccia e indica la strada per proseguire. Dovrei fermarmi? mancano “solo” 16 km, forse “appena” 1200 metri da salire, poi c’è il discesone su strada… Evvài!

Ci si dirige proprio sotto il Pelmo, sentiero ottimamente tenuto, in leggera salita (dai 1750 si superano di poco i 2000); riprendo quasi subito i ragazzi russi, le bandelle continuano a indicare la strada, lo smartphone conferma, e finalmente, dopo circa 44 km, ecco la deviazione tra il giro super-super e il nostro dal volto un po’ più umano.

Comincia anche a piovere, io resisto così mentre i ragazzi si cambiano d’abito, credo per la terza volta (al Duran, sotto il sole, avevano due cappelloni stile cowboy o Massimo Muratori); ma la scena tenera di un vitello che tetta dalla mamma merita una sosta e qualche foto un po’ annebbiata. Incrociamo un ragazzo che sale con una gerla stracolma, ci dice che poco avanti c’è la scopa con l’argentino – il mitico Carlos Alberto Monetti che compie gli anni lo stesso mese di Natalia, però 44 autunni prima -, finalmente li prendo quasi in cima al Monte Punta, 47 km e fischia (“se vuoi piangere fallo adesso!” ammonisce un cartello), dove un elicottero sta issando col verricello una podista incidentata. (Mi era suonato il telefono poco sotto, e sentendo il rumore dell’elicottero temevo cercassero me: ma non ho risposto alla chiamata, ero letteralmente in condizione ‘mozzafiato’).

Finalmente siamo alla discesa, una bella carraia poco sassosa, ma lunga quasi 8 km fino all’ingresso nelle frazioni alte di Zoldo. Ci passano i due germanici supermen, noi ci consoliamo superando due olandesi molto più alla portata (io cerco di distrarre la compagnia ricordando certe finali poco limpide dei Mondiali di calcio con Olanda e Argentina protagoniste).

Al penultimo km uno spettatore offre un piatto di cocomere a fette: i miei due piccioni con la fava consistono che afferro una fetta e nello stesso tempo sorpasso un francese che mi arriverà appena dietro; seguono, ai limiti o un po’ oltre il tempo massimo, ma festeggiati e ‘diplomati’, i due olandesi, una coppia di italiani, l’argentino, un altro olandese, la lettone Elina di 27 anni, che zoppica ma all’ultimo km rifiuta l’ambulanza; e finalmente i due russi, che chiudono gli arrivi in 14h 17.

Fossi negli organizzatori, gli darei un premio speciale, altrocché ftm. Ma non sarà certo un bollino in più o in meno che ci toglierà la gioia di aver partecipato, dal primo all’ultimo metro, a questa meravigliosa festa di natura, di sport e di fratellanza tra popoli.

 

Le foto, assemblate da Roberto Mandelli, sono in realtà di tre autori diversi (due li vedete nella foto 11); in particolare, a Giuliano Macchitelli (vicino a Podisti net fin dai primissimi anni di vita, 1999-2000) si devono le foto 28-32 del mio poco glorioso arrivo. L'arrivo dei primi della 103 e le premiazioni della 53, foto 14-27, sono di D. Gianaroli.

http://foto.podisti.net/p368106341

 

Non tutti sanno che Comacchio, fino al 1598 appartenuta ai duchi estensi (che se la tenevano ben stretta per via delle saline, quando il sale era la fonte primaria per conservare le carni, dai “salumi” alle “salacche” alle “salamoie”), in quell’anno con un brutto scherzo da preti venne ‘conquistata’ dal Papa, il quale falsificando le carte, fabbricando donazioni fasulle ecc. (tutto quanto sta alla base del potere temporale dei papi), disquisendo su paternità legittime o illegittime dei duchi (alla Chiesa è sempre piaciuto curiosare nei letti dei fedeli), pretese di dimostrare che Comacchio era un feudo suo, come Ferrara. L’imperatore lasciò fare, per il momento, e i duchi estensi mestamente ripiegarono su Modena (dove di sale non se ne produceva neanche un grammo); ma nel 1709 il nuovo imperatore Giuseppe d’Asburgo, istruito da due storici niente male che si chiamavano Leibniz e Lodovico Antonio Muratori (due che ci andavano a nozze a dimostrare che le presunte donazioni di Costantino e di Carlo Magno erano state fabbricate nel 1300, da quei papi che Dante aveva cacciato all’inferno ancora vivi), mandò un esercitino da quelle parti e si riprese il suo.

La guerra durò fino al 1725: Muratori ci scrisse un trattato che all’epoca fu giudicato “più dannoso per il papa che una battaglia persa”; l’imperatore morì e gli successe Carlo VI, il quale aveva un grave difetto: solo figlie femmine (a partire dalla famosa Maria Teresa). Le femmine non potevano diventare imperatore, salvo che il papa non facesse il cosiddetto (oggi) "passo di lato", dunque gli Asburgo rischiavano addirittura di perdere l’impero: e allora (come succede qualche volta anche nel 2018 dalle parti di Roma), i due nemici che fino a poco prima si erano scambiati cannonate e impeachment trovarono un meraviglioso inciu***, anzi, un bellissimo “patto”: io papa ti lascio 'sancire pragmaticamente' l'incoronazione ufficiosa di Maria Teresa (vabbè, ufficialmente l'imperatore è suo marito, ma si sa che in casa i pantaloni li porta Maria Teresa), e io imperatore ti ridò Comacchio e mi prendo anche il permesso di fare i miei comodi in Sicilia.

Dite che la storia non insegna niente?

Il governo papale di Comacchio portò la zona ad essere una delle più depresse d’Italia: paludi, malaria, mortalità altissima, degrado anche morale. Venne finalmente l’unità d’Italia, e con essa le bonifiche, che oggi dispiaceranno ai verdi (ah, com’era bello l’ecosistema con la zanzara anofele che proliferava liberamente! Com’erano belli i lidi ferraresi invasi dagli sterpi e dai detriti del Po, dove ci arrivavi solo in barca!), ma hanno fatto rinascere la zona, che divenne anche un cantiere sperimentale per le bonifiche pontine e le nuove città. Sulla vecchia strada Ferrara-Comacchio (la “via del mare”, una di quelle bellissime strade di una volta, contornate da platani) venne rifondato il paesino di Tresigallo, oggi definito “città metafisica” perché sembra progettata da De Chirico: una bella piazza centrale, con chiesa e municipio ai due estremi, da cui si diramano stradoni rettilinei, edifici pubblici funzionali (a cominciare dall’asilo statale, anno XVI EF), linde abitazioni private. Andate lì e vi sembrerà di essere a Sabaudia, Fertilia e quella che oggi chiamano Latina: Tresigallo e la bonifica di Comacchio ne sono state il modello.

E una delle vie principali di Comacchio, che percorriamo durante la corsa, si chiama Muratori, come la biblioteca comunale: insomma Modena è riuscita almeno in parte a riconquistare questa cittadina, il cui centro storico sembra Venezia (salvo che è costruito in mattone locale e non in costosi marmi d’importazione, e non si deve sgomitare per passeggiarci, e non ti tassano anche l’aria, e il caffè lo paghi 1 euro).

In questo centro storico si corre la 11 Ponti, giunta ufficialmente alla 52° edizione (chissà perché, quando io la corsi nel 1991, allora si dichiarava “4° edizione”…), che riceve il nome appunto dai ponti, tutti con lunghe scalinate in salita e discesa, che dobbiamo scavalcare cercando di tenere il ritmo e di non inciampare. Distanza ufficiale di 8,5 km: stessa distanza che veniva dichiarata anche nel 1991, quando i Gps non esistevano, ma ci accorgemmo tutti che erano sì e no 7 km; adesso, coi Gps che tendono ad esagerare per far sentire più bravi i loro portatori (Lorenzini dixit), la distanza pare sia di 8,1, e il su e giù pare si concretizzi in 40 metri di dislivello complessivo.

In piazza Dante, luogo del ritrovo, riecco l’immortale Michele Marescalchi, indigeno ferrarese 'rubato' dalla papalina Bologna : c’era anche il 15 giugno di 21 anni fa, quando alle 7,30 diede il via alla maratona Comacchio-Casal Borsetti (primo incunabolo della maratona di Ravenna: ve l’ho pur detto che da queste parti si sperimenta e poi si esporta!), ed accortosi di un primo km troppo lungo, riuscì a pilotare le strutture d’arrivo per accorciare il finale della maratona.

E la riconquista modenese di un territorio nostrano è segnata dallo stand di Lupo sport, coi fidi Dino e Ivaldo, che dopo una mattina passata sulla spiaggia enorme del Lido di Spina (la sabbia più fine di tutto l’Adriatico) vengono qui non solo a vendere ma ad insegnare, a diagnosticare difetti di appoggio, a prescrivere la scarpa adatta per la “cura”: chiedo a Lupo un parere sulle scarpe che ho ai piedi, e diplomaticamente mi dice che ha comprato in Spagna una partita di scarpe che, non saranno il top, ma rispetto alle mie non c’è neanche confronto.

Lupo, nella sua vita precedente, quando faceva il sindacalista metalmeccanico, veniva anche a Tresigallo alle assemblee sindacali: e dei suoi compagni di lotta di allora ricorda con simpatia Trentin (e oggi Landini), molto meno Bertinotti, che quando erano già riusciti a chiudere un accordo con la Fiat lo fece disfare, poi rifare quasi uguale purché si vedesse che ci aveva messo becco anche lui.

Fu così che Lupo accettò l’offerta della Fiat di buonuscita di 8 milioni di lire con cui aprì il suo primo negozio: e oggi, tutta Italia conosce il suo nome, e noi che abbiamo corso con lui (una Firenze marathon del 1995, quando arrivammo in piazza S. Croce, Ivaldo lui e io, intorno alle 3.27) sappiamo anche che la sua cultura pratica, prima che di commerciante, è di sportivo a tutto tondo.

Bene, intanto a Comacchio partono i cosiddetti “bambini”, poche decine (su distanze che, perfino per i diciassettenni, rimangono sulla ridicola quota di 1.5 km: nel 1991 erano 2.5, anche per i quattordicenni); alle 18,30 tocca a noi, 213 competitivi (48 donne), cioè non tantissimi (sebbene dai siti sia impossibile vedere le classifiche degli anni passati, prima del 2017 quando la gara fu solo non competitiva), e molti più non competitivi.

Perché pochi da una parte e tanti dall’altra? Azzardo: iscrizioni competitive che una pagina del volantino (accompagnato, sul sito del comune, da una foto di “Seiga Teghedoni”) diceva a 6 euro, ma il modulo di iscrizione portava a 8, come erano in effetti, con un premio che sarebbe dovuto consistere in una maglietta di cotone (diciamo 2 euro di valore?) e un pacco alimentare, in pratica una confezione di piadine che però risulta “esaurita” (da chi?). Insomma, noi peones non compresi nei primissimi riceviamo tanto quanto chi ha pagato metà di noi: e allora (sarà stato il ragionamento di molti) chi ce lo fa fare? E c’è persino chi parte prima e insomma macchia con le abitudini mediopadane una corsa e un territorio dove si è sempre corso sul serio, dai tempi di Laura Fogli e Maura Bulzoni in poi.

Torniamo ai competitivi, dove la parziale riconquista modenese è siglata dal terzo posto femminile di Giulia Vettor (mia compagna di squadra!), e dal sesto maschile di Andrea Baruffaldi; Stefano Baraldini vince poi la categoria D maschile (over 55, quasi un quarto del totale dei maschi).

Altri sono sparsi qua e là, sebbene la stragrande maggioranza abbia optato per la non competitiva, e sulla loro partenza allo sparo non metterei la mano sul fuoco. “E che male ti fanno?”, immagino sia la risposta. D’altra parte, come dice Lupo, se nelle riunioni del Comitato podistico modenese “a pèr d’èsar al Cialdèin” (l’ospizio della quarta età), non puoi sperare molto di più dai praticanti residui.

Discreto ristoro finale, custodia borse e docce non segnalate, ma per chi vuole c’è ancora il tempo per un tuffo in mare, in luoghi dove la bandiera blu sventola con maggior credibilità che ad Agropoli o Centola o Massa Lubrense.

 

Sarà stato (come dice la Teida fotografa) a causa della presenza mia, di Giangi e di Giuseppe Cuoghi, che già ieri sera avevamo preso l’acqua a 30 km da qua, e oggi ci siamo ritrovati sotto la guglia della parrocchia Madonna Pellegrina e sotto il solito cielo plumbeo, che immancabilmente ha cominciato a scaricare acqua dieci minuti prima della partenza, ha smesso dopo mezz’ora per ricominciare di lì a breve.

Sarà stata anche la silente scomunica del Coordinamento modenese, che non ha “coordinato” questa gara macchiatasi di due gravi colpe: far pagare l’iscrizione ben 2 euro (anziché 1,50, come si paga solo a Modena), e non prevedere premi di società, cioè i rituali prosciuttini che finiscono a chi acquista più pettorali, indipendentemente che li si indossino o no.

Risultato: alla partenza ufficiale, sulla via Porta alias “via dei giornalisti” (dove i grandi giornalisti modenesi di una volta, del clan di Zucconi padre, Arrigo Levi, Vittorio Gorresio, Remo Lugli ecc., si costruirono le case, al limite estremo della città,  dove visse anche il fumettista Bonvi e Guccini creò l’espressione “tra la via Emilia e il West”) ci trovavamo sì e no in 200, più poche decine di partiti in anticipo.

Una sola tenda di società, della Formiginese del presidente Bevini: vi hanno trovato rifugio anche podisti di varie estrazioni, che non si fidavano del gazebo all’aperto predisposto dall’organizzazione (“Taccini” è il nome del gruppo sportivo parrocchiale), per contenere le nostre borse.

Sotto la pioggia siamo partiti, senza pettorali perché al loro posto la parrocchia ci aveva rilasciato poco più di un francobollo, valido per ritirare il premio finale (succhi di frutta, pasta o altri alimentari); e se anche ce li fossimo spillati, si sarebbero spappolati in breve.

Via dunque, allegri sotto la pioggia, come i bimbi fotografati nel parco cosiddetto della Resistenza (dove nel 1970 si svolse il primo campionato provinciale di corsa campestre, con non più di venti partecipanti), a sud-est delle ferrovie provinciali (a loro volta ridotte a un solo scassatissimo trenino), polmone verde che ogni tanto viene eroso da qualche costruzione ai margini, e aspetta a breve la mega-lottizzazione delle Morane, esecrata dai cittadini ma voluta dai politici al potere (ultima prevaricazione prima di essere mandati a casa per sempre).

Si esce dai confini della parrocchia (il giro lungo è di 9,7 km) e del quartiere Buon Pastore, ormai saldato con l’altro quartiere San Faustino: resistono più o meno duecento metri di verde tra via Rosselli, la chiesa di Saliceta e la fu-casa coniugale di Pavarotti (nei cui paraggi fa brutta mostra di sé una ex galera che farebbe tuttora comodo, ma è lasciata cadere a pezzi: ci pensano gli indulti a risolvere il sovraffollamento carcerario).

Nel frattempo smette di piovere, e le foto di Teida (tornata pure lei nei luoghi dove visse bambina) documentano Cuoghi, Cecilia, Alle-Simo, Massimo Bedini e gli altri fedelissimi delle corse modenesi (ma Giangi pare non sia nemmeno partito) che si godono, provvisoriamente all’asciutto, il passaggio nei pressi del Bonvi-Parken, della chiesa dello Spirito Santo (dove il prete dice ancora la messa in latino), e di nuovo nel territorio della Madonna Pellegrina, perfino davanti alla mia prima casa modenese, sugli ex prati paludosi tra i binari antichi dove giocavamo a calcio 3 contro 3, mentre i contadini falciavano l’erba, nel dopopranzo prima di rientrare in casa a fare i compiti.

Il culto delle belle forme ha indotto gli organizzatori ad erigere l’arco del traguardo a metà del campo sportivo, da percorrere secondo un itinerario tracciato a semicerchio. Nemmeno Cuoghi vuole rinunciare a quella parata sotto gli obiettivi dei fotografi, sebbene l’arco crolli proprio al suo arrivo. Ci vuol altro per far desistere il vecchio hockeysta dalla pratica sportiva: ci dà appuntamento tra due giorni, sempre nel raggio di pochi chilometri da qua.

È cominciato da poco il 32° Challenge (pronuncia normale: Sallànsz) della provincia di Bologna, camminate estive serali generalmente in servigio dei festival dell’Unità - sempre meno, e sempre più tristi - : ma insomma quando mancheranno li rimpiangeremo. Come rimpiangiamo già, quest’anno, la cancellazione del Challenge di Crespellano, la corsa pedecollinare probabilmente più bella di tutte.

Rimane la vicina e affine Zola Predosa, sebbene su un tracciato ridotto a poco più di 6 km: però con un dislivello di 200 metri che consente in salita di ammirare a sinistra la vicina Madonna di San Luca (e in basso Calderino, ricordo di antichi passaggi per la estinta Bologna-Zocca); in discesa, di spingere lo sguardo su Monteveglio, Bazzano e la pianura brumosa su cui un paio di volte passò la maratona “del trenino” Vignola-Bologna, assolutamente non rimpianta.

Come di consuetudine nei “Sallànsz”, la partenza ufficialmente prevista alle 19,30 è più libera che mai: a Zola poi, dove tra il festival e la partenza vera e propria ci sono 300 metri da percorrere in autonomia, non è mai capitato di vedere troppa gente aspettare l’ora giusta. Infatti alle 19,27, quando lo “starter” ormai disperato ha ordinato il rompete le righe, all’attacco della salita eravamo in 34, che incrociavamo i molti di più che arrivavano in senso opposto, pronti a fiondarsi sul premio di partecipazione (le tradizionali 6 uova) e soprattutto sui ristorantini in attesa: la vera motivazione perché nei festival si continuino ad allestire gare podistiche.

Una ragione in più, oggi, i partenti anticipati potevano accamparla: i nuvoloni neri che rinserravano l’afa, e i tuoni che minacciavano scrosci. Hanno resistito nell’attesa Cuoghi della Cavazzona e Giangi da Campogalliano (mentre il suo amico Bandieri si è attendato al riparo in un ristorante, senza prendere il via); siamo partiti ancora all’asciutto, ma dopo un quarto d’ora esatto è cominciato a piovere, e ce la siamo beccata, prima leggera e piacevole, poi più scrosciante, fino a un km dall’arrivo, quando è praticamente smessa. Una specie di nuvoletta di Fantozzi, che comunque non ci ha fatto male e ha reso forse più gradevole la salita tra i vigneti dei primi 5 km.

Discesa molto più veloce, e probabilmente accorciata rispetto ai tempi antichi quando si attraversava anche una fattoria con relativi sterrati. Ottimo il servizio agli incroci, rinforzato anche da alcuni vigili ufficiali. C’era perfino un ristoro dopo meno di 3 km.

Per niente segnalato l’arrivo: o meglio, quello ufficiale stava dall’altra parte della strada, ai citati 300 metri dal festival, ma per chi voleva proseguire di corsa, l’unico segno che era davvero finita erano le due reincarnazioni della tabaccaia di Amarcord che distribuivano le uova, e di fianco un tè decisamente saporito. I ristoranti democratici erano pronti a inghiottire chi non sentisse l’attrazione per il rientro in Nazionale di Balotelli.

 

La gara di sabato 26 maggio alle 17 (quando per la prima volta la temperatura ha raggiunto i 30 gradi), ha funto da apripista per il trofeo podistico del Frignano, senza valere per la classifica tranne che per la simbolica assegnazione della maglia, di cui i primi classificati di oggi potranno fregiarsi alla tappa d’esordio effettivo.

Percorso dichiaratamente più lungo di quelli solitamente tracciati nelle gare consorelle: quasi 11 km, circa  metà su sterrato,  con un dislivello di 460 metri, partendo dai 550 metri slm di Prignano, scendendo quasi al fondovalle Secchia, 255 metri, dopo 2.8 km (dall’abbondante servizio fotografico di  Teida Seghedoni, vedere le foto 78-85), e poi risalendo verso due cime principali con un’altezza massima di 665 metri al km 9.4 (la salita appare alle foto 444-445), per ridiscendere infine alla partenza. La durezza delle salite ha costretto molti ad andare di passo per lunghi tratti, anche fra i competitivi (vedi foto 219 e dintorni). Ma bastavano le discesine per far ritrovare il sorriso a raggianti podiste come nella foto 369-370, lei in accenno di deshabillé e tutta protesa a raggiungere il fidanzato che (impossibilitato a seguirla in bicicletta) l’aspetta alla base.

Non moltissimi i partecipanti: compresi i non competitivi, impegnati anche sul giro breve di 4 km, e verosimilmente anche compresi alcuni che non hanno corso affatto (compensati, peraltro, da quanti hanno corso senza spendere nemmeno l’euro e mezzo del pettorale), sono stati conteggiati in 419, con il Cittanova che da solo ne ha ‘ingaggiati’ 90, seguito dalle due principali società amatoriali della vicina Sassuolo, che hanno iscritto in totale 71 podisti. I competitivi classificati sono 85, di cui 16 donne, cifre che probabilmente cresceranno quando le classifiche conteranno sul serio.

Solita sagra dei partenti anticipati che non si degnano nemmeno di spillarsi un cartoncino sulla maglietta: il primo con un pettorale non competitivo appare dalla foto 131, il primo competitivo (che poi è stato il vincitore Alessandro Donati, classe 1985, con due minuti e mezzo di vantaggio sul compagno di squadra Alessandro Venturelli) fa invece la sua comparsa dalla foto 153; la prima donna (la immancabile, in gare di questo calibro, Laura Ricci) è dalla foto 205; mentre, per esempio alla foto 334, si ‘ammirano’ i sorpassi in slalom che i competitivi devono fare sugli anticipatori.

Consistenti i cartoni alimentari che hanno premiato i primi 5 uomini e donne; per tutti gli altri, una confezione di crescentine che, oltre all’eccellente organizzazione, ripaga ampiamente dell’euro e mezzo speso,  per chi l’ha speso.

Venerdì, 25 Maggio 2018 11:06

I cento scalatori del Bib-Bianello

Ormai il numero cento sembra essere una caratteristica del podismo reggiano serale di collina: eravamo cento coppie a Jano cinque giorni prima, e di nuovo cento singoli (non dirò gli stessi) a Quattro Castella, nome falso-antico al posto di denominazioni locali meno risonanti. Anche il castello di Bianello (l’unico oggi esistente dei quattro di cui si favoleggia) si chiamava “Bibbianello”, rendendo così più evidente la sua parentela con Bibbiano (come, qualche chilometro prima, si trovano Rubbianino e Ghiardello, tutti diminutivi degli agglomerato originari). Comunque, secondo gli storici, non fu a Canossa, ma proprio a Bibbianello che la duchessa Matilde radunò il papa e l’imperatore per la mitica riconciliazione; mentre secondo i folcloristi, nel castello si aggira ancora un fantasma.

Tradotto in termini podistici, il fantasma odierno di Bianello era Stefano Morselli, già tradizionale microfonista in costume al traguardo, e ora costretto nella Bassa da altri doveri meno piacevoli ma più necessari. Riguardando vecchie foto, rivedo Morselli in piena funzione nell’edizione del 2015, dove io venni con un braccio al collo (trasportato sull’auto degli immancabili Cuoghi e Giaroli, siccome non potevo guidare) e poi, tolta la valva gessata e indossato il tutore, mi buttai io pure su quelle rampe badando soprattutto a non rompermi anche l’altro braccio.

La gara da otto anni sostituisce (con altri organizzatori) la cronoscalata delle Tre Croci di Scandiano, su una lunghezza ufficialmente identica di 4100 metri, abbandonata da alcuni anni; a garantire la continuità e la “certezza della pena” è il solito staff dei giudici Uisp, da Mainini junior ai fratelli Iotti (mentre i cugini Giaroli corrono, almeno in parte); e ci aggiungo la signora Flora che provvede a gestire la palestra con docce e custodia borse. Rispetto a Scandiano, qui il percorso è più vario, per quasi due km su sentiero nel bosco, che ti riconcilia con la vita dopo un primo tratto di 650 metri nei quali l’asfalto ti aveva indotto a spingere per ritrovarti sfiatato e pieno di pensieri su “chi me l’ha fatto fare?” alla svolta boschiva a destra, dove forse la metà di noi (la seconda metà, ovviamente) è costretta a camminare sui primi tornanti sterrati. Poi il sentiero spiana e anzi discende leggermente, tra chiazze di fango: i circa 200 metri misurati di salita corrispondono ai circa 120 metri di dislivello tra il municipio di Quattro Castella e il Bianello, più la discesa intermedia di una settantina di metri, infine l’ultima erta micidiale, tra le foto di Nerino al rientro sulla stradina

http://foto.podisti.net/f215646276

e quelle di Italo al sommo della scalinata, dopo che abbiamo superato un tratto di prato, in salita-discesa appena dentro le mura del castello, che non ricordavo, e infatti prolunga la lunghezza effettiva del tracciato dai 3,550 che il mio Gps misurò tre anni fa ai 3,850 di stavolta.

Qui noi partiti nelle retrovie profonde (e do atto all’organizzazione di aver accettato iscrizioni fino all’ultimo minuto, senza nemmeno l’odioso sovrapprezzo che a molti piace imporre per i ritardatari) incrociamo quelli già arrivati, che stanno discendendo a piedi verso la partenza, la consegna del premio di partecipazione (mezz’ora prima di noi c’era stata anche una non competitiva), il ristoro finale dove appaiono due varietà di ottimo lambrusco reggiano, le classifiche esposte con velocità prodigiosa e le premiazioni.

Noi peones guardiamo veramente dal basso in alto i primi tre che ci hanno messo meno di 18 minuti, incluso Gian Matteo Reverberi che vent’anni fa scalzò Morselli dal trono dei retrorunner; e la prof Morlini che, dovendo risparmiarsi per un chilometro verticale in Svizzera fra due giorni, impiega 19:18 arrivando comunque 14° assoluta.

http://www.podisti.net/index.php/cronache/item/1571-quattro-castella-re-viii-cronoscalata-del-bianello.html#!DSC03239

Ci restano i confronti curiosi tra non-piazzati: mi accorgo di essere immediatamente dietro a una ragazza  Fabia da Rubiera (faremmo una squadra equilibrata per un eventuale trail a coppie…), e un minutino dietro pure al mio già-compagno di squadra alla Abbotts, Maurizio Pivetti. Gelo Giaroli invece deve arrendersi, peraltro evitando largamente la “gogna”, scherzosamente ma ingiustamente riservata all’ultimo. Cui invece io darei un premio uguale che per i primi, tanto più che oggi se lo aggiudicherebbe una mia antica e affettuosa scolara di quando l’università era una cosa seria e formava insegnanti di alto livello, che rispettavano e si facevano rispettare.

Abbiamo vissuto, abbiamo dato, ci siamo ancora e non abbiamo perso la fede nel podismo: chissà se il nostro sport vivrà ancora, e fra trent’anni la prof “Matilde” Morlini potrà incoronare al Bianello una propria allieva.

 

VIDEO

 

 

Alla fine, nel rituale pasta party dopogara (che, come appunto nel rito, si prolunga per tempi d’attesa più lunghi di quanto sarebbero desiderabili), percepivo un po’ di scoramento, da entrambe le parti: degli organizzatori, per un ulteriore calo di partecipazione: se l’anno scorso avevo titolato il resoconto Fornacione allungato, partecipazione accorciata, lamentando le sole 111 coppie arrivate, anche ben oltre il tempo massimo, contro le 145 dei tempi d’oro…, stavolta siamo appena in 101.

Scoramento anche maggiore tra noi podisti, per la notizia dell’ennesima spaccata con furto sull’auto di un collega: e poco vale sapere che dei ladri erano stati messi in fuga dal servizio d’ordine nel parcheggio adiacente all’impianto sportivo, se questi ladri poi sono andati a rubare cento metri più in là.

Insomma, nella provincia di Reggio (la più civile e ricca di iniziative podistiche, con epicentro conclamato in Scandiano) è divenuto un rito molto laico quello di festeggiare il calendario delle corse con i furti nelle auto; cosa che va in parallelo con le notizie quotidianamente lette o sentite, sul ritornello di “clandestino, con tre identità ma senza permesso di soggiorno, pluripregiudicato, sorpreso a rubare, condotto in questura per l’identificazione, poi liberato con obbligo di firma”.

Insomma, siamo stanchi, anzi più che stanchi, e forse l’unica cosa buona che ci aspettiamo dal futuro (?) governo avrebbe nome di “certezza della pena”; per non costringerci a ricorrere, in subordine, al parimenti paventato eccesso di legittima difesa, che poi non si sa se Jano diventa una località del Far West, e anziché da Conte (quello del Chelsea che si è trapiantato i capelli?) vorremmo farci governare dal Clint Eastwood dei tempi migliori.

Cerchiamo intanto di parlare di sport, se si può: gli atleti calano, un po’ dovunque, sia per la vecchiaia e gli acciacchi, sia per la ripetitività di certe gare. Il Fornacione, nella sua versione che risale più o meno al 2011 (però progressivamente allungata e indurita, tanto da assestarsi sui 22 km e 1050 metri di dislivello), rimane bellissimo anche perché di notte le brutture non si vedono e la pianura ceramica sembra solo un susseguirsi di punti luminosi, ma ormai ha detto tutto quello che doveva dire. Anche perché il percorso è frequentato da altre gare analoghe: la Camminata Circolo al Ponte, che tra due mesi dovrebbe partire e arrivare nello stesso luogo con lo stesso sentieraccio da capre come aperitivo; o il trail di Pratissolo celebrato tre mesi fa, con centro gara mezzo km più o nord, solito sentiero da capre, solito passaggio dalla Quercia grande, salita micidiale a tre quarti di gara e solita discesa finale (ma senza guado). Poi c’è anche stato l’anticipo della maratona e mezza di Suviana che ha portato via alcuni ‘montanari’ come il mio partner dell’anno scorso, peraltro rimpiazzato dall’inossidabile Ideo Fantini, rivale di una vita (alla prima maratona del Ventasso andammo insieme sul podio di categoria, temo M 45) e già compagno in questa gara cinque anni fa.

Sebbene Ideo non avesse intenzione di tirarmi il collo (in previsione di un super-ultra-trail che tenterà insieme alla “sposa di Correggio” Rosanna Bandieri), è riuscito tuttavia a farmi abbassare il tempo del 2017 di 12 minuti, e soprattutto a resistere al ritorno di ben 7 coppie che in discesa ci tallonavano a pochi passi, ma sono rimaste indietro, concentrate in uno spazio di 250 metri, vale a dire un minuto e mezzo.

Sono queste piccole cose (lo sprint per l’87° posto!!) a dar sapore a un evento che ormai conosciamo quasi a memoria, incluso il controllo degli zaini da parte degli inflessibili Iotti e Giaroli (si era sparsa voce che pretendessero persino non uno, ma due telefonini ogni coppia!), le foto di Nerino sulla discesa al terzo km, i controlli di Duilio al km 6, che le coppie stiano vicine; l’ordine di accendere le luci impartito da Cinzia al km  12 (ristoro in zona Tre Croci), dove pure il marito Paolo fa rispettare il divieto di buttarsi in discesa da soli se il tuo partner (appunto Ideo) si attarda al ristoro (ma io in discesa vado piano, Ideo mi prende quando vuole, e lascia pure che abbracci la piacente podista nei pressi! – ah sì, va pure, ma cammina piano!); poi, il ristoro festoso al passaggio in paese che ci prepara alla salita spezzagambe del sentiero Spallanzani (ma se lo faceva lui nel 1780, noi con le scarpe di oggi non dobbiamo farcela?); e ancora, una prima arrampicata su corda all’asciutto, e una seconda corda che ci scorta nel proverbiale guado del Tresinaro (oggi profondo non più di 40 cm), mentre si odono i richiami di Soraia che invano esorta la compagna a “mollare” in discesa, che le gambe vanno da sole, e a rispettare il nome della squadra “Vivi, ama, corri” (ma almeno per la terza cosa non c’è niente da fare, la Catia biondona ferrarese passa avanti col suo Luca, come pure fanno le modenesi “zizze del martedì” Rita e Barbara).

Dietro restano i vignolesi Francesco e Andrea, con la giustificazione della ripresa graduale dopo lungo infortunio: per tutti, al traguardo altre foto e l’informatissimo speaker Brighenti, in grado persino di intrattenere da neo-competente dei podisti tennesseani, a dare colore e vivacità ad arrivi e premiazioni.

Vincono tra i maschi nomi notissimi del giro locale e non solo: Davide Scarabelli e Lorenzo Villa, in rimonta su Matteo Pigoni e Marco Rocchi finiti a un minuto e mezzo; grandissimi i sudtirolesi di Val Sarentino Markus Planoetscher e Annelise Felderer, quarti assoluti e primi con gran margine fra le coppie miste (questo significa che Annelise corre come un maschio, e di più). Più scarsina (senza offesa) la prestazione delle coppie femminili (appena 8), dove le modenesi Botti e Montelli arrivano in 35^ posizione assoluta, mezz’ora dietro l’Annelise, ma con 20 minuti sulle seconde e mezz’ora sulle terze.

Ottime le segnalazioni lungo il percorso (il che non ha evitato a una decina di colleghi di uscire per qualche decina di metri dallo Spallanzani), costante e ubiqua la presenza di signore dell’organizzazione come la Simona e l’Orietta sia sul percorso sia al traguardo; docce nella norma, tiepidine ma in progressivo riscaldamento man mano la calca negli spogliatoi diminuiva; infine il pastaparty, per i soliti 10 euro di supplemento, e dove la lentezza del servizio è stata compensata dalla squisitezza del ragù di carne (più scarsi gli affettati) e dai bis concessi quando la sala si andava svuotando.

Servizio fotografico: http://www.podisti.net/index.php/component/k2/item/1531-19-05-2018-jano-di-scandiano-re-fornacione-night-trail.html

 

Abbiamo ricevuto in anteprima, dalla sezione italiana di Shopalike (compagnia attiva in 13 paesi europei e collegata alla grande catena editoriale tedesca di Axel Springer), una prima e una seconda versione (migliorata) di una proposta per eventuali ‘maraturisti’ che volessero girare l’Europa e nel frattempo correre le gare “più popolari”.

Come ci ha spiegato la responsabile del gruppo, Chiara Chierchié, l’iniziativa non riveste scopi commerciali (cioè non viene da un’agenzia turistica che venda pettorali e viaggi) ma solo comparativi, “e la scelta finale di molte maratone è stata fatta su consiglio di chi proviene dal paese in questione. In questo modo, tuttavia, ovviamente le scelte sono soggettive e non sempre fornite da un esperto del settore. Il punto principale era di dare la diversità più ampia possibile”.

Tot capita tot sententiae, si diceva: ci siamo incuriositi anche noi a guardare la lista confrontandola con la nostra (incompleta) esperienza, che i lettori-redattori potranno agevolmente integrare; e insomma, nel pubblicare la proposta, ci permetteremo di consentire o civilmente dissentire.

Cominciando dall’Italia: per decidere quali siano “le 5 migliori corse” non basterebbero Il Senato e la Camera in seduta congiunta permanente, anche perché bisogna intendersi su che cosa una sia “migliore”: per il paesaggio, panorami o monumenti? O per l’organizzazione secondo i soliti parametri di noi che corriamo? Nel catalogo troviamo tre maratone, e se sulla bellezza e l’eccellenza organizzativa di Firenze e Venezia non si discute, come prova il successo partecipativo, quanto al Mugello… beh… il fatto che sia in piedi da 44 anni ma non abbia mai sfondato, anzi sia in calo, e i partecipanti (351 nel 2017!) ci vadano più per abitudine e per conquistare la spalla di prosciutto, accettando in cambio di farsi gasare su strade aperte al traffico, che per una validità intrinseca della gara, a noi pare dimostri a sufficienza che il Mugello qui sia un infiltrato.

Niente da dire sull’eccellenza delle due mezze inserite, Stramilano e Roma-Ostia; ma come loro ce ne sono tante altre che meriterebbero citazioni analoghe (e non facciamo nomi perché ne avremmo in mente almeno dieci, e sicuramente ne dimenticheremmo altre dieci).

Sono due maratone (Roma e Atene), e tre mezze (Valencia, Lisbona, Creta), quelle classificate le migliori del Sud Europa: scommetteremmo sui primi tre nomi, gli altri due li lasceremmo ai turisti più o meno balneari. Ma “sui gusti ‘un ci si sputa”, dicono in Toscana.

Più articolato il quadro delle venti maratone consigliate, di venti stati diversi: ognuna col numero di partecipanti, il prezzo di iscrizione (supponiamo, quello iniziale) e il record (ma il 2.31 di Atene è sballato: nel 2017 il primo finì in 2.12). Parigi, Berlino e Londra sono le tre più affollate, per ottime ragioni; molto distanziate seguono Barcellona e Atene, poi c’è Roma e, singolarmente appaiate coi loro 13138 arrivati, la rinomatissima olandese di Rotterdam e la sorpresa belga di Puurs (località sconosciuta ai più, a metà strada tra Bruxelles e Anversa). Della Svizzera è preferita Lucerna, che coi suoi 1350 arrivati non è certamente fra le prime cinque della Confederazione (a Interlaken si viaggia sui 4000 !); poi, per una sorta di riequilibrio con l’Europa orientale, dopo Praga Budapest e Varsavia ecco Kosice e Bucarest: quest’ultima, con un migliaio appena di arrivati. Fanalino di coda quanto a classificati è Tromso, più un’acchiappaturisti che una maratona, dove ad onta del sole annunciato fin dal titolo, il clima usuale è piovoso e freddo. Ma una volta nella vita, a molti di noi è accaduto di farci fregare, oltretutto a caro prezzo.

Tromso no, ma molte altre città sedi di maratona ritornano nella tabella delle migliori mezze: così è per Valencia e Berlino (e non ci piove), ma pure per Bucarest, che (come Creta) avrà degli estimatori tra i corrispondenti di Shopalike. Ma la più partecipata, con ben 57mila arrivati, risulta Newcastle, seguita da Göteborg con 42mila (si veda anche la tabella “Le più grandi mezze”, dove “grandi” significa “frequentate”). Per l’Italia non c’è più la Roma-Ostia ma la Mezza di Monza coi suoi 4200 arrivati, sebbene il record di oltre 2 ore sarà quello della categoria M 90 o giù di lì.

Ben nove delle 20 gare hanno tempi dei vincitori sui 58 minuti (non andiamo a controllare se sia davvero Lisbona la più veloce): sorprende l’Ecotrail di Oslo, che qui ci sta a pigione (per dirla ancora alla toscana) con la sua ora e 20, ma ancora una volta prevale l’intento di rappresentare più Stati diversi.

Sarebbe poi facile indicare i tempi anche per le gare dove la tabella recita “No info” (se sapete gli arrivati, ci vuole poco a vedere anche il tempo del primo!): per esempio, a Vienna nella maratonina dello scorso 28 aprile il vincitore ha impiegato 1h14. Qualche clic in più non avrebbe guastato: vedremo alla prossima release.




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