Direttore: Fabio Marri

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Fabio Marri

Fabio Marri

Probabilmente uno dei podisti più anziani d'Italia, avendo partecipato alle prime corse su strada nel 1972 (a ventun anni). Dal 1990 ha scoperto le maratone, ultimandone circa 280; dal 1999 le ultramaratone e i trail; dal 2006 gli Ultratrail. Pur col massimo rispetto per (quasi) tutte le maratone e ultra del Bel Paese, e pur tenendo conto dell'inclinazione italica per New York (dove è stato cinque volte), continua a pensare che il meglio delle maratone al mondo stia tra Svizzera (Davos e Interlaken; Biel/Bienne quanto alle 100 km) e Germania (Berlino, Amburgo). Nella vita pubblica insegna italiano all'università, nella vita privata ha moglie, due figli e tre nipoti (cifra che potrebbe ancora crescere). Ha scritto una decina di libri (generalmente noiosi) e qualche centinaio di saggi scientifici; tesserato per l'Ordine giornalisti dal 1980. Nel 1999 fondò Podisti.net con due amici podisti (presto divenuti tre); dopo un decennio da 'migrante' è tornato a vedere come i suoi tre amici, rimasti imperterriti sulla tolda, hanno saputo ingrandire una creatura che è più loro, quanto a meriti, che sua. 

L’avevamo lasciato in quarantena, ma già in fase di pre-riscaldamento prima del ritorno alla vita normale.

http://podisti.net/index.php/commenti/item/6037-matteo-villani-salta-anche-l-ostacolo-covid19.html#!Villani_Matteo_0001

Vita che per lui significava rivedere il suo ospedale di Piacenza per dare un contributo determinante contro l’epidemia; ma anche, riabbracciare la famiglia; infine, riprendere con lo sport all’aria aperta:

Veramente – dice- anche quando ero confinato da solo in casa, dopo sfebbrato, al mattino mi allenavo in bici sui rulli, nel lato esposto al sole; al pomeriggio correvo sul tapis-roulant sull’altro lato, sempre per stare al sole…

Dunque parliamo anzitutto di salute:

Dopo tre settimane in isolamento (dove solo il mio papà veniva a trovarmi quotidianamente), e i tamponi negativi, il 21 aprile ho ripreso il lavoro come anestesista-rianimatore.

Ma fino all’anno scorso tu avevi il posto di lavoro in Svizzera:

E’ vero, prima a Losanna poi a Lugano: posti dove si lavora benissimo (più sodo che in Italia), dove le esigenze lavorative devono anche prevalere sugli affetti familiari. Il mio posto è ancora là, ma dopo gennaio scorso, sia per la nascita della terza figlia, sia perché qui c’era davvero bisogno, ho sentito l’istinto di rientrare per fare quanto potevo.

E ti sei beccato il virus. E il resto della famiglia?

Noi sportivi, oggettivamente, abbiamo delle risorse in più... Mio padre Giovanni, una maratona improvvisata a 50 anni in 2h45, non ha mai preso nemmeno un raffreddore; mia moglie Giulia, anche lei senza disturbi, e prima che la situazione si facesse pericolosa per lei e i bimbi, sfollata a San Felice sul Panaro. Ma adesso sono rientrati tutti a Fidenza e almeno, quando rientro dal lavoro, possiamo stare tutti insieme; e presto verrà il tempo che anche Giulia, logopedista nello stesso nostro ospedale, potrà ricominciare il lavoro.

Come va in ospedale?

Non male. La quarantena collettiva (le “zone rosse”, spiacevoli ma benemerite) ci ha ridato respiro; adesso i ricoverati in rianimazione sono quasi quelli dei tempi normali, e ogni giorno il numero degli “estubati” supera quello degli “intubati”. Lo dico sottovoce, ma abbiamo già strutture e posti letto per una “seconda ondata”: che però, se siamo bravi, non ci sarà.

A proposito: nelle prime settimane, e qualche volta anche oggi, si sono sentiti discorsi lugubri sul “triage”, cioè le scelte che al Pronto soccorso facevate preventivamente, su quelli da curare e quelli, ahiloro, da lasciar perdere…

Allora: la parola “triage”, che è stata tirata fuori fin troppo ma significa semplicemente “smistamento”, indica una prassi che è in vigore da sempre. Se tu ti presenti al Pronto Soccorso, è ovvio che come prima scelta il medico deve separare chi ha un infarto da chi ha una frattura e da chi è semplicemente ubriaco. Questo è il “pre-triage”. Quando è scoppiata l’infezione, abbiamo aggiunto un altro quesito diagnostico: sei a rischio di Covid? Hai sintomi, hai frequentato dei malati? A questo punto, separati i non-Covid sicuri (i fratturati o infartuati, per intenderci) da quelli sospettabili di infezione, fatti i tamponi ecc., per quelli con virus accertato scattava il “triage di priorità”: chi deve essere trattato con maggiore urgenza perché ha più probabilità di cavarsela? Nessuna scelta in base all’età, ma semmai in base alla pesantezza del trattamento. Un conto è se ti metto la mascherina a ossigeno sulla bocca, un altro conto se devo infilarti un tubo fino ai polmoni: alcuni pazienti, magari quelli che per malattie proprie avevano già altri fili o tubi inseriti (pacemaker, dializzati ecc.), non sopportavano un ulteriore tubo, con annesso coma farmacologico, che anzi poteva accelerarne la morte. Ricordo a tutti che non è il tubo o l’ossigeno a guarirti: quelli ti assicurano la sopravvivenza in attesa che il tuo organismo reagisca al virus.

Adesso si può correre all’aperto. All’inizio dell’epidemia si è fatto un po’ di terrorismo nell’ipotesi che il cosiddetto paziente 1, Mattia Maestri, avesse infettato i colleghi podisti alla Mezza di Portofino cui aveva partecipato.

Non mi risulta che ci siano stati infettati tra i partecipanti alla corsa di Portofino; e nemmeno alla maratona Salsomaggiore-Busseto del 24 febbraio. Perlomeno, non in numero anomalo rispetto a quelli che si infettavano per altri motivi.

E per la ripresa, come facciamo: con o senza mascherina? E’ vero che correre respirando attraverso la mascherina chirurgica ti fa rischiare seri guai per il ricircolo di anidride carbonica?

Prima di andare a rischio, ce ne sarebbe di CO2 da respirare… Io vedo chirurghi che indossano la mascherina per 12 o anche 24 ore senza mai toglierla!

Intanto, per la tua personale attività sportiva?

Dovete sapere che, dopo le mie esperienze giovanili con la Liberi e Forti dei gemelli Chittolini, e la Fratellanza di Modena con Finelli (l’unico che riusciva qualche volta a costringermi al ‘bigiornaliero’!), abbiamo fondato una società, la Ballotta Camp con sede a Salsomaggiore: solo casuale la coincidenza col nome del famoso portiere di Parma, Modena e Lazio. Contiamo una ventina di iscritti, tra cui mia moglie Giulia, e partecipiamo al campionato provinciale di Parma; ma siamo stati anche alle finali nazionali di cross Fidal a Venaria nello scorso autunno, con buoni risultati. Naturalmente, non mi limito a fare il capitano-non-giocatore: ho un 1.14 sulla mezza (nel 2014), un 30:04 sui diecimila, 15:57 sui cinquemila (nel 2014, dopo un 13:56 da assoluto, nel 2008). E con me c’è gente che vale anche in maratona: un Giorgio Bosi, adesso 48enne, con 2.43 a Carpi nel 2016, e che ha corso quasi tutte le Majors (ma anche le nostre Reggio, Ferrara, Russi) sotto le 3 ore: avevamo programmato Londra insieme, e invece... Devo dire che nella mezza mi arriva sempre più vicino, ma adesso aspettate quando torno in forma…

E ora si corre?

Il nostro presidente Simone Conforti ha organizzato tutto al meglio: il campo è giustamente chiuso, ma per fortuna attorno a Salso è tutta una collina e si corre, individualmente e senza mettere la mascherina se non c’è nessuno. Attenzione che dalle società della nostra zona (Avis Fidenza, Liberi e Forti) sono venuti fuori venti nazionali e cinque olimpici, noi del Ballotta Camp non possiamo essere da meno…

E la signora Giulia?

Adesso con una bimba di sei mesi ha altro cui pensare… Ma l’anno prossimo, chissà: come resistere, otto anni dopo il 2.58 della maratona di Reggio, alla tentazione della maratona sotto casa, ideata dai nostri maestri…? Per il momento non diciamo niente, ma… aspettateci!

  

Matteo Villani

 
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10 maggio – Primo fine settimana all’insegna del “quasi liberi tutti”: radio e tv raccomandano di evitare “l’effetto Naviglio” o “la scena-Mondello”; il pittoresco governatore della Campania minaccia di arrestare gli pseudo-podisti con tre braghe (ma quando mai li hai visti!) per oltraggio al pudore; il governatore dell’Emilia-Romagna, con la barba meglio curata del solito, saluta il commissario speciale proibizionista – quello sempre lugubremente vestito di nero, camicia compresa – e dopo tre giorni di validità della sua ordinanza ne emana un’altra che la smentisce, consentendo di uscire dalla provincia per fare tante cose, compresa l’attività motoria (purché si rimanga dentro la regione: perché notoriamente i bacilli di Reggiolo non vanno a Gonzaga ma restano in quarantena nella casa dei doganieri).
Davanti alle frotte di persone oggi anche nei parchi e nelle stradette di campagna modenesi (mai vista tanta gente!) mi vengono in mente quei sarcastici versi del concittadino Guccini (ottant’anni fra un mese, tra la via Emilia e il West): “tu giri adesso con le tette al vento – io lo facevo già due mesi fa”. Ebbene sì, durante i due mesi di blocco mi ero ricavato un circuito campagnolo, “in prossimità” di casa (mai più di 1200 metri, Gps alla mano), e siccome i famigerati 200 metri non esistevano in nessuna ordinanza della mia regione, ma erano solo un pourparler senza validità legale, in quel circuito mi sono corso tre maratonine autogestite più altri percorsi minori, quasi ogni giorno: accorgendomi che devo essere allergico a una delle erbe che si accumulavano tra scarpa e calza, perché al collo di entrambi i piedi mi era venuta un’irritazione che sta passando solo adesso… Vabbè, i droni (che spreco di risorse alla ricerca della multa facile) non mi hanno beccato, e se mi beccavano i vigili li avrei rimandati a un dibattito a bocce ferme in tribunale, per capire chi ha diritto di imporre leggi e di decidere cosa significa “prossimità”; e infine, avrei chiesto ai vigili cosa ne pensavano delle adunate regolari, con grigliate e perfino partite di calcetto, nei prati in fondo a via T.d.G., dove la strada finisce mentre un centinaio di metri più in là, terreno agricolo già coltivato a grano, è in corso un mega intervento edilizio, cinque palazzoni di almeno cinque piani benedetti dal Comune.
Ma lasciamo perdere e ricominciamo da capo, da quell’8 marzo in cui la provincia di Modena venne improvvisamente dichiarata “zona rossa”, col divieto di passare il confine verso Bologna (prima città d’Italia vittima, la settimana precedente, della soppressione di una maratona, eppure non “zona rossa”). In quel giorno avevo programmato in famiglia una lunga passeggiata verso quella parte della “Via degli dei” che non avevo mai fatto, cioè tra le prime colline bolognesi e il passo della Futa (da dove, viceversa, ero partito come atleta di retroguardia, un paio di volte, arrivando fino a Fiesole).
“Via degli dei” è un nome un po’ di fantasia, quasi come la “Via degli abati” cento km più a ovest; ma sottintende una realtà storica, la riscoperta di una strada romana, la Flaminia Militare da Bologna ad Arezzo, parzialmente riportata alla luce una quarantina d’anni fa da due appassionati di storia e archeologia, “dilettanti” col merito di non aver dato retta ai soloni dell’università di Bologna, e con braccia sufficienti per dissotterrare, sotto un metro di manto boscoso, i resti del selciato di 2200 anni fa. Da quattro anni, Via degli Dei e Flaminia Militare sono anche i nomi di un suggestivo ultratrail, previsto il 3 aprile di quest’anno disgraziato, e dopo un tentativo di rinvio, annullato definitivamente per il 2020.
E appunto, nel dubbio di non riuscirci mai più come atleti, io e la consorte Daniela avevamo programmato per l’8 marzo di percorrere un tratto a noi sconosciuto della Via: ma venne il confinamento, e quella domenica ripiegammo su un giro nell’appennino modenese (è vero che per arrivare al punto di partenza, la strada statale faceva una ventina di km in territorio reggiano… ma come diceva Max Vinella, chiappala).
Due mesi dopo, quasi-liberi-tutti come si diceva, allora ritiriamo fuori le mappe e il librino distribuito ai partecipanti dell’Ultratrail; autostrada fino a Rioveggio, un pustàzz (direbbe Lolo) sventrato dai viadotti, però nobilitato dal trail-marathon di Monte Sole (saltato pure esso). Poi a Madonna dei Fornelli, 826 metri, da dove parte ufficialmente la seconda tappa del trekking, quella che tocca le tre cime più alte dell’intero percorso, tra i 1100 e i 1200 metri, coi resti più significativi della strada romana.
Che nei primi 5 km, fino a  Pian di Balestra (provincia di Bologna, ma si sente solo l’accento toscano), è stata ‘ricoperta’ da stradine e carrarecce varie; ma da quel punto in avanti, fin quasi al passo della Futa, è splendidamente riconoscibile. E ogni volta che vediamo lo stupendo rettilineo lastricato (come a Pompei!) inabissarsi sotto il terriccio e i faggi o gli aceri, per poi riemergere magari mezzo km dopo, mi chiedo quanti percettori di reddito di cittadinanza potrebbero venire quassù a fare qualcosa di utile. Se ognuno scavasse un metro al giorno, in un anno o due … ma la voce di Daniela mi sveglia dall’utopia: “Non gli spetta, il capo dei navigators è già scappato in America!”.
Intanto, ecco la cava di pietra da dove furono estratti i piastroni della strada (“strata”, cioè lastricata), e dove i due ‘dilettanti’ trovarono una moneta romana, oggi riprodotta nella segnaletica del percorso; ecco la fornace dove si cuoceva il calcare per ricavarne la calce, mentre la strada di crinale va su e giù, con qualche blanda curva per addolcire la pendenza (il Gps, a parte un 26% delle prime centinaia di metri di sentiero certamente non romani, mi darà un massimo del 18%, ma la strada vera e propria raramente arriva al 5%). Un paletto sotto il Monte Bastione, da dove cominciano i reperti più estesi, indica il passaggio del confine con la Toscana, che qui in effetti segue una linea piuttosto capricciosa (l’antico confine naturale della Futa è tutto in territorio toscano, mentre alla nostra destra Pian del Voglio e Castiglione dei Pepoli, a sinistra Loiano e Monghidoro sono bolognesi). Stiamo violando le leggi regionali? Non siamo i soli: 3-4 ciclocrossisti e almeno una quindicina di camminatori fanno altrettanto, e non credo che nessuno stia infettando i pipistrelli della zona… dove peraltro, il richiamo di tanti invisibili cucù, oltre al fruscio delle lucertole, è il suono più caratteristico.
Si prosegue, tra boschi e radure erbose, con tre sorgenti naturali di acqua fresca, ottimamente segnalate, per le tre vette più alte del percorso: le Banditacce (m 1202), il Poggiaccio (1196) e Poggio Castelluccio (1131); poi la strada scende verso i 900 metri della Futa, zona già nota, dunque possiamo fermarci qui, dopo quasi tre ore di marcia e 13,5 km (con 575 D+, 440 D- per dirla in termini tecnici).
Un panino, un frutto portati da casa (i due agriturismi lungo il giro sono chiusi) e consumati sul lastricato romano, con l’acqua di fonte, sono il nostro ristoro da semipodisti: passano tre anziani camminatori toscani, coi quali scambiamo impressioni - alla canonica distanza che qualche commissione medica stabilisce in m 1,82, e noi recepiamo come se fosse una distanza testata in laboratorio, mentre si tratta solo della traduzione dalla cifra tonda di due yards.
Il ritorno è anche il canto del cigno (cigno nero) delle Kalenji da trail comprate per pochi spiccioli in uno dei momenti più angosciosi della mia vita podistica: primavera 2015, braccio al collo, tre fratture, eppure sono iscritto alla UTMB di fine agosto, bisogna muoversi: ecco allora i test (di scarpe e gambe) in tre trailini da 21 km, e poi il battesimo del fuoco il 26 agosto, negli ultimi 60 km fino a Chamonix (le scarpe che avevo portavo fino al cambio erano ormai due zolle di fango). Prova superata, e riprova nel 2016, questa volta nella prima parte della Abbotts Way, e tre mesi dopo nella mitica Davos. Ahi ahi, strappi sulla tomaia (dopo 270 km di gare), ma li faccio riparare, e nel 2017 ributto le scarpe in gioco con la ecomaratona di Fiera di Primiero (vado persino a premio!). Poca altra roba, fino all’ultima gara importante, il Ventasso nove mesi fa. Dopo un totale di 500 km scarsi, requiescant in pace.
Il sole punta verso il Cimone e il Cusna striati di neve, là all’estremo ovest, e illumina Monghidoro (quella che prima di Gianni Morandi si chiamava Scaricalasino) sul versante opposto. Le piante dei piedi fanno un po’ male, che vergogna: ma un conto è l’erba attorno a via T.d.G., un conto le pietre romane e i sassi medievali.
Chissà se tornerò da queste parti, con altre scarpe, ma in pantaloncini e pettorale spillato, senza paura di spillover…

 

 
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Giovedì, 30 Aprile 2020 23:45

Davos tenta col 19 settembre: riuscirà?

Le restrizioni decise dal governo federale svizzero (divieto di svolgere manifestazioni con più di 1000 partecipanti fino a tutto agosto, secondo la direttiva del 29 aprile già pubblicata da Podisti.net)
http://podisti.net/index.php/notizie/item/6110-stralugano-annullata-l-edizione-2020.html
hanno indotto anche gli organizzatori della prestigiosa Swissalpine di Davos, finora programmata per il 25 luglio, a proporre lo spostamento a sabato 19 settembre (una settimana esatta dopo la Jungfrau Marathon di Interlaken, che per ora non annuncia mutamenti).
La data non è ancora garantita, si attendono “chiarificazioni” prima di procedere, e si promette che l’esperienza autunnale sarà straordinaria. Un annuncio definitivo è promesso per metà maggio. Ma purtroppo, sarà l’andamento dei bollettini medici in tutto il continente a decidere: e se tutto procedesse per il meglio, a Davos intendono dedicare l’evento quale segno di gratitudine verso tutti quanti “hanno fatto grandi cose nel combattere la pandemia in questi mesi”.

 
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Dagli al tedesco! In questi giorni, dai blog alla stampa governativa, se ne legge di ogni: questi tedeschi cattivi, queste Sturmtruppen che hanno perso due guerre, che se non li salvavamo noi (noi italiani???) nel 1945, oggi avrebbero ancora le pezze al sedere; che quando noi avevamo Virgilio e Cicerone erano ancora analfabeti (questo l’ha detto il Duce, ma ogni tanto qualcuno lo tira fuori) ecc. ecc., adesso fanno tante storie per prestarci qualche centinaio di miliardi e si nascondono dietro al fatto che i nostri governanti ogni anno, dopo aver solennemente promesso di ridurre il deficit, invece lo aumentano…? Ma come si permettono?

Eh…, questione di stile, forse, che induce a fare dei confronti. In Italia abbiamo chiuso per primi e riapriremo per ultimi; nel nostro orticello delle corse, abbiamo visto cancellate decine di maratone o mezze o altre distanze: la maggior parte rinviata all’anno prossimo (eufemismo per dire ‘cancellata’), una piccola parte riprogrammata per l’autunno, in date che peraltro saranno tutte da vedere. Prassi degli organizzatori è trasferire automaticamente l’iscrizione al 2021, e per chi non potesse o non potrà… peccato! Solo in pochi casi è promesso un rimborso, almeno parziale. Raccomandazione lodevole: non chiedeteci i soldi ma lasciate che li devolviamo alla lotta contro il Covid. Insomma, una specie di carità obbligatoria, o se volete una tassa patrimoniale che per ora colpisce i podisti e servirà a scagionarli dall’accusa di essere diffusori dell’epidemia o perlomeno egoisti che corrono anche quando gli altri piangono.

Anche la Germania ha cancellato importanti eventi sportivi durante la fase più acuta dell’emergenza, ma, come abbiamo appena visto, lascia ai singoli stati confederati (Laender) le decisioni, che sono più stringenti fino al 31 agosto, poi lasciano presagire un allentamento lasciato però ai singoli stati.

http://podisti.net/index.php/in-evidenza/item/6075-germania-annullata-la-maratona-di-berlino-e-anche-l-oktoberfest.html


Così lo stato di Berlino ha deciso di chiudere fino a ottobre tutti gli eventi con oltre 5000 partecipanti, ma altri confederati per il momento non lo seguono. E così, mentre nel “Libero stato di Sassonia” (erede del regno di Sassonia che fra gli ultimi sovrani annoverò il Re Giovanni, appassionato di Dante Alighieri) famiglie e ragazzi affollano i parchi nei giorni di vacanza, perché poi si torna a scuola, nella Renania settentrionale-Westfalia (lo stato più popoloso dei 16 tedeschi, comprendente città come Bonn, Colonia, Dortmund, la capitale Düsseldorf e la bellissima Aquisgrana), amministrata elezione dopo elezione da una feconda alternanza dei due maggiori partiti tedeschi, non pare si vogliano prendere decisioni così drastiche.
Il 9 agosto è prevista, come i lettori più interessati sanno, la 44^ edizione della ecomaratona e ultramaratona di Monschau: la data rientra nel parziale coprifuoco consigliato dal governo federale, ma gli organizzatori al momento tirano dritto. Un loro comunicato, appena seguente l’annuncio dell’annullamento di Berlino, si esprime in questo tenore:

Cari atleti e atlete, come capiamo dalle vostre tante chiamate, sia noi che voi abbiamo sempre gli occhi puntati sulla nostra maratona. Non lasceremo niente di intentato per svolgere l’evento nel modo prefissato. Il percorso, tutto nell’ambiente naturale del Parco dell’Alto Eifel, resta inalterato: dunque potete continuare o cominciare ad allenarvi. Chi non l’avesse ancora fatto, può iscriversi fino al 15 luglio: non ci sarà la possibilità di iscrivervi sul posto! Riceverete i pettorali per posta, e vedremo di organizzarci per il noleggio dei chip a chi ne fosse sprovvisto [in Germania, quasi nessuno!].
Se per caso dopo il 15 luglio fossimo costretti al rinvio, le iscrizioni varranno senza supplementi per l’edizione 2021; ma se non accettate la cosa, pur non essendo obbligati alla restituzione integrale della cifra pagata, ve la rimborseremo trattenendo solo 5 euro di spese vive. Nel pacco gara, invece della maglietta troverete un regalo equivalente. Dovremo annullare solo le staffette, a causa dell’eccessivo addensamento di folla nei luoghi di cambio: gli iscritti saranno integralmente rimborsati.
E’ verosimile che gli orari di partenza siano leggermente modificati. La prima cosa che ci sta a cuore è la salute vostra e degli addetti ai servizi; attendiamo le delibere delle autorità e, presumibilmente a metà maggio, contiamo di essere più precisi.
Grazie per la vostra fedeltà, e restate sani!

Non c’è che dire, anche in questo caso la Germania sarebbe un bel modello per il nostro paese, dove quasi nessun organizzatore parla di rimborso delle quote di iscrizione (pochissimi promettono un rimborso parziale); come detto sopra, quasi tutti garantiscono la validità della cifra pagata per l’edizione futura, senza spese. Tranne (pare) Bologna, il cui sito è fermo all’11 marzo, e dal cui ultimo post sono state tagliate solo due righe rispetto alla comunicazione inviata agli atleti quello stesso giorno, che qui ripubblichiamo:

Vi aspettiamo TUTTI, con ancora più entusiasmo, nel 2021 e, nonostante fosse stato precisato in modo chiaro nel regolamento, che in circostanze assai poco probabili come queste non fosse previsto alcun rimborso, abbiamo deciso di dare la possibilità agli iscritti di quest'anno di partecipare, a fronte dei soli oneri di segreteria (15,00 €), alla Bologna Marathon 2021.

Oneri di segreteria per un pettorale su cui basterebbe metterci un timbro 2021, o anche niente, a simboleggiare che quella che si correrà sarà comunque la maratona 2020?
Vogliamo sperare che la soppressione delle righe non sia una tattica commerciale ma sottintenda un ripensamento (sebbene a chi, iscritto alla non competitiva, ha richiesto i 10 euro dell’iscrizione sia stato risposto a picche).
In caso contrario, sarebbe un altro tassello dell’impietoso confronto Italia-Germania.

 

 
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“Distanziamento sociale”: questa orrenda definizione, ricopiata dall’anglo-americano come la maggioranza di quelle che stanno imperversando nelle nostre settimane di clausura (anzi, di lockdown), con l’illusoria assicurazione che everything will be fine (pardon: andrà tutto bene), minaccia di marchiare a lungo, o forse per sempre, la sperabile ripresa dell’attività sportiva. Già adesso, il fatidico metro di distanza è una delle scuse che impediscono di ritrovarsi a correre insieme; poi c’è chi saggiamente vorrebbe portarlo a due o più metri. Risultato: si dovrebbe correre solo “a cronometro”, con partenze distanziate, uno per uno: cosa impraticabile se i concorrenti superano il centinaio, metti anche duecento, a 30” l’uno dall’altro fanno 6000 secondi cioè quasi due ore.

Ora, dalla ASD “Sentiero Uno” di Trieste, che per la Befana organizza la “Corsa della Bora”, trail su distanze competitive dai 21 agli 80 km (con la prospettiva di arrivare a 160 e a 200 km nel 2022), giunge una proposta scaturita dall’esperienza organizzativa del 2020, che a prima vista non scioglie tutti i dubbi ma merita di essere presa in considerazione.

Riportiamo buona parte del comunicato dell’Ufficio stampa, emesso il 21 aprile.

La soluzione per gestire al meglio il futuro prossimo in cui saremo costretti a convivere con il virus arriva dalla Cosa della Bora, uno degli eventi di trail running più importanti e apprezzati a livello europeo. E c’è già chi sta pensando di portarla a modello come “salvataggio” per manifestazioni analoghe che avranno luogo non appena la ripresa lo consentirà.
A parità di concorrenti, Trieste ha visto il primo esperimento non voluto di distanziamento sociale in una kermesse di Trail running, creando una densità di concorrenti pari ad 1/15 di quella del sistema tradizionale.
Senza volerlo o prevederlo, a gennaio 2020 alla Corsa della Bora è stato fatto un esperimento, il primo nel suo genere: gestire contemporaneamente più gare di trail running sovrapposte sia per percorso che per tempi, organizzando le partenze in scaglioni organizzati, detti Start waves.
“ Un esperimento (dice il presidente dell'Asd Tommaso de Mottoni) nato dalla caparbia decisione di voler continuare ad organizzare la competizione su sentieri stretti, ma estremante suggestivi, che però non si adattavano più al numero crescente di presenze sia per motivi di sicurezza che per rispetto dell’ambiente. Da qui l’esigenza di trovare un sistema che consentisse la presenza in sicurezza di migliaia di concorrenti su un percorso con dei tratti in sentiero singolo o il passaggio in aree protette.
La soluzione è arrivata guardando al mondo delle competizioni su strada, ma sempre con la prospettiva del trail running: rivisitare il concetto di partenza scaglionata per alleggerire non solo il percorso, ma anche regolare l’afflusso ai ristori e sulla finish line”.
Qui la scelta viene fatta ordinando i concorrenti per “best time”: sistema che comporta un grosso impegno aggiuntivo e costi da parte dell’organizzator, ma ha dato origine ad un format di gestione delle partenze che potrà dare una risposta esauriente alle nuove esigenze di distanziamento sociale emerse durante la crisi Covid19. Ma non solo: De Mottoni aggiunge che “La partenza in scaglioni, se ben gestita, consente di fare in modo che tutti gli atleti percorrano determinati punti con la luce del sole, che gli arrivi siano concentrati in una determinata parte del giorno, e consente la partecipazione anche ad atleti che sono preparati dal punto di vista tecnico ma non sono in grado di percorrere il tracciato a velocità sostenuta. In questo caso però parliamo di distanziamenti dei vari gruppi di ore e non di minuti, operazione che consente anche di uniformare i tempi di impegno dei vari ristori sul percorso, paradossalmente invertendo la curva che vede il primo ristoro impegnato per poche ore e l’ultimo per un tempo spesso pari al 70% del totale delle ore di gara”.

L’edizione 2020 ha parametrato il calcolo delle waves su due principi opposti a seconda delle gare: per le gare brevi ridurre la densità, in modo da amplificare il naturale “sgranarsi” dei concorrenti ed evitare rallentamenti nella sezione iniziale. Sulle gare lunghe, parliamo di S1 Ultra 164 km e S1 Ipertrail 167 km è stato applicato il principio opposto: aumentare la densità, ovvero far sì che tutti i concorrenti arrivassero più o meno nello stesso arco temporale condensando gli arrivi in meno di 10 ore rispetto alle 25 di forbice che si possono osservare di solito nelle prove di questo genere.
“L’impegno per il 2021 è quindi continuare con lo studio di questo sistema, adattandolo a finalità legate al distanziamento sociale ed alla maggior sicurezza sanitaria, ma anche di mettere a disposizione i propri dati e la propria esperienza ad altri organizzatori che volessero intraprendere questa strada su basi strutturate”- sottolinea de Mottoni.
Ma cosa c’è di nuovo in tutto questo? Il fatto che i gruppi non vengono più organizzati in maniera semicasuale, ma sulla base di più parametri, creando di fatto una competizione omogenea. Organizzare le partenze in gruppi non significa semplicemente “dividere con la ruspa i concorrentima presuppone un attento lavoro di pianificazione a monte basato principalmente su una corretta acquisizione, gestione e trasmissione delle informazioni riguardo ai concorrenti”.
Nel dettaglio: i tempi di distanziamento, i numeri di concorrenti per gruppo ed il numero dei gruppi vanno calcolati tenendo conto sia delle caratteristiche del terreno che dei concorrenti e ponderate con le percorrenze medie degli anni precedenti a parità di indice di performance del concorrente (varrà il punteggio ITRA). Va fatto un corretto lavoro di sensibilizzazione del concorrente, al fine di acquisire più dati corretti possibile riguardo al giusto collocamento nel gruppo e facendogli capire l'importanza di tale distanziamento.

Qui sotto, ecco come nel 2020 sono state gestite le partenze della 57 (a sinistra) e della 21 km (a destra)

 

TOP RUNNER
PARTENZA ORE 7:25
PETTORALI DA 301 A 370

TOP RUNNER
PARTENZA ORE 11:25
PETTORALI DA 1001 A 1070

1° GRIGLIA
PARTENZA ORE 7:30
PETTORALI DA 371 A 570

1° GRIGLIA
PARTENZA ORE 11:30
PETTORALI DA 1071 A 1310

2° GRIGLIA
PARTENZA ORE 7:35
PETTORALI DA 571 A 770

2° GRIGLIA
PARTENZA ORE 11:35
PETTORALI DA 1311 A 1550

3° GRIGLIA
PARTENZA 7:40
PETTORALI DA 771 A 970
PETTORALI DI ALTRE DISTANZE TRASFERITI A 57

3° GRIGLIA
PARTENZA 11:40
PETTORALI DA 1551 A 1790
PETTORALI DI ALTRE DISTANZE PASSATI A 21

 

 
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Se digitiamo su un motore di ricerca la frase magica “Utilità mascherine” riceviamo un milione e 590mila risposte: quantità ormai ingovernabile. Siamo più modesti e ci riattacchiamo a un pezzo, meno impegnato scientificamente ma più attuale e ‘pratico’, cioè quello sul laboratorio artigianale familiare di Concorezzo descritto il 26 marzo:  http://podisti.net/index.php/notizie/item/5965-coscritto-mandelli-su-la-maschera-si-va-ai-posti-di-combattimento.html

Aggiorniamo quel pezzo perché il nostro Bikila dei fotografi, e la consorte Giancarla (convalidando il famoso detto che dietro a un grande uomo c’è sempre una grande donna) hanno proseguito, spontaneamente e a richiesta, la produzione & rifornimento; ma… ricordate quella tal circolare governativa (tanto per cambiare) che ha rotto l’anima agli organizzatori di corse coi temi della “safety & security”? Allora, il nostro Roberto, che rimane rigorosamente in casa, semmai fotografando dalla finestra le varie corsette cortilive o le uscite altrui, ha preso spunto da un video recentemente apparso, nel quale un farmacista di Rovigo testerebbe vari tipi di mascherine col sistema ‘soffiare sul fuoco’, bocciando inesorabilmente quelle offerte dalla sua regione perché lasciano traspirare il soffio e dunque (si presume) anche i virus. E’ poi saltato fuori che il video era una bufala, nel senso che venivano ‘bocciate’ mascherine che la Regione Veneto non aveva spacciato come protezione per il covid-19; tuttavia Mandelli ha voluto verificare l’efficacia delle mascherine ‘lombarde’ e poi delle sue concorezzesi. I risultati promuovono senza dubbi (analisi virologica a parte: ma chi la va a fare, a 120 euro o su di lì?) le mascherine-Mandelli e vari altri tipi ufficiali; bocciano la mascherina della Protezione civile. Ma precisa: solo quella mascherina che è arrivata a casa Mandelli (ce ne sono di vari tipi, come ciascuno può verificare facilmente guardando nel proprio armadietto); a Concorezzo ne circolano altre, per le quali va elogiato a priori lo sforzo delle tante volontarie che le producono, ma usufruendo di materiali inadeguati. Un po’ come gli scarponi di cartone che i poveri soldati dell’Armir ricevettero per il gelo russo, non erano colpa dei calzolai…

Ma, poveraccio anche il governo (lo diciamo sinceramente): fino a un mese fa, sobillato dalle normative dell’omissiva OMS, non credeva all’efficacia delle mascherine, e manteneva sul sito del Ministero della Salute (Salute.gov.it) una Guida per l’uso corretto di mascherine chirurgiche e respiratori per ridurre la trasmissione del nuovo virus influenzale AH1N1v aggiornata all’agosto 2009, che cominciava così:

Tra mascherine chirurgiche e respiratori ci sono importanti differenze: le mascherine chirurgiche non aderiscono strettamente ai contorni del viso e pertanto possono soltanto impedire che le goccioline di secrezioni respiratorie (droplet) più grosse vengano in contatto con la bocca o il naso di chi le indossa.
La maggior parte dei respiratori, anche chiamati filtranti facciali, sono fatti in modo da aderire strettamente al viso di chi li indossa, filtrando così anche le particelle più piccole che potrebbero essere inalate o venire in contatto con le mucose di naso e bocca.
Sia per mascherine che per filtranti facciali, comunque, sono disponibili solo dati limitati sulla loro efficacia nella prevenzione della trasmissione dell’influenza, sia dovuta a virus stagionali classici che da nuovo virus AH1N1v, in diverse situazioni.
Tuttavia, la mascherina o il respiratore potranno essere tanto più utili quanto più precocemente usati in caso di esposizione ad una persona malata, a condizione che essi siano usati in maniera appropriata.

E continuava con altre indicazioni alquanto dubbiose:

Le mascherine approvate per uso come dispositivi medici sono state testate per assicurare specifici livelli di protezione nei confronti della penetrazione di sangue ed altri fluidi biologici attraverso le mucose di naso e bocca. Le mascherine forniscono una protezione nei confronti della diffusione dell’influenza sia bloccando le goccioline di secrezioni respiratorie emesse dalle persone  malate che le indossano, sia impedendo che le medesime goccioline o spruzzi di secrezioni o altri fluidi biologici raggiungano le mucose di naso e bocca. Non sono fatte per proteggere nei confronti di aerosol fini che potrebbero contenere particelle infettanti di piccolissime dimensioni come i virus.

Mente per quelli più correttamente chiamati Respiratori o Filtranti facciali (certificati FFP2 o superiori), spiegava che

Un respiratore è progettato per proteggere la persona che lo indossa da aerosol finissimi che possono contenere particelle infettanti di dimensioni ridottissime come i virus. Un respiratore perfettamente adattato al viso (fit test) può filtrare gli aerosol contenenti virus generati da persone infette, ma rispetto alle mascherine presenta l’inconveniente di non essere tollerato per lunghi periodi per la difficoltà di respirarvi attraverso.

Ma quanto al Covid 19, all’inizio dell’epidemia conclamata, due mesi fa, persistevano i “sì, vabbè” governativi. Ecco l’istruzione del 25 febbraio:

Quando va indossata la mascherina?

Per prevenire il rischio di infezione da nuovo coronavirus è prioritario curare l’igiene delle mani e delle secrezioni respiratorie. L’Organizzazione mondiale della sanità raccomanda di indossare anche una mascherina solo se sospetti di aver contratto il nuovo coronavirus e presenti sintomi quali tosse o starnuti, oppure se ti prendi cura di una persona con sospetta infezione da nuovo coronavirus. L'uso della mascherina aiuta a limitare la diffusione del virus ma deve essere adottata in aggiunta ad altre misure di igiene respiratoria e delle mani. Non è utile indossare più mascherine sovrapposte. Inoltre, la mascherina non è necessaria per la popolazione generale in assenza di sintomi di malattie respiratorie.

Ma solo gli sciocchi non cambiano mai idea: il nuovo orientamento, favorevole alle mascherine (propriamente intese: quelle cioè che indossa il dentista quando ti apre la bocca, ovvero quelle più comuni che vendono in farmacia) è riassunto in due eccellenti articoli apparsi in questo mese. Nel dare il link raccomandando la lettura del pezzo completo, stralcio qualche riga anzitutto dal “Sole24ore” del 3 aprile (Federico Mereta):

https://www.ilsole24ore.com/art/perche-stiamo-andando-l-obbligo-mascherine-ADpExyH?refresh_ce=1

I nuovi studi sulla trasmissione del virus non solo con le goccioline di saliva ma anche attraverso l’aerosol e le ricerche di altri istituti stanno spingendo l’Oms a rivedere le sue indicazioni.
Da una parte c'è l'evidenza ormai chiara che anche chi non ha sintomi o ha disturbi minimi può comunque trasmettere il virus. Dall'altra studi di laboratorio che dimostrano che il virus non passa solamente con le goccioline di saliva, ma anche attraverso aerosol. E non si tratta solamente di una mera speculazione di fisica, visto che nell'aerosol la permanenza del Sars2-COv-19 può essere anche di tre ore, seppur in quantità ridotte, come mostra uno studio pubblicato sul New England Journal of Medicine…
Se mescoliamo questi due fattori e aggiungiamo un pizzico di scelte politiche e ragionamenti etico-sociali, ecco pronto il cocktail che sta avvicinando una “giravolta” scientifica e istituzionale inattesa: se ad inizio marzo c'era stato un secco “niet” dell'Organizzazione Mondiale della sanità all'impiego di mascherine protettive nei luoghi pubblici, in particolare nei supermercati, ora pare proprio che l'OMS riconsideri la sua posizione…
L'OMS potrebbe arrivare a consigliare se non addirittura a rendere obbligatorio l'impiego dei dispositivi sui posti lavoro e negli ambienti pubblici, quando solo un mese fa negava la necessità di approccio di questo tipo…
In Austria, ad esempio, non si può entrare nei supermarket senza la mascherina, mentre nella Repubblica Ceca ed in Slovacchia non è ammesso girare in pubblico senza questo dispositivo. E non parliamo di quanto avviene in Asia: tutte le immagini che giungono da Cina, Corea e Giappone mostrano infatti tutte le persone che circolano con il viso protetto da mascherina…
Ma non avrebbe senso proteggerci tutti stile Giappone? Appare su questa linea l'immunologo Roberto Burioni che rispondendo ad un quesito su Twitter ha affermato: «Purtroppo a questo punto ognuno di noi potrebbe essere infettivo pur senza sintomi. Per questo sarebbe opportuno che tutti portassero una mascherina»…
«Se tutti le metteremo – spiega Paolo Bonanni, Direttore dell'Istituto di Igiene dell'Università di Firenze – ovviamente le possibilità di trasmissione del virus saranno ridotte… C.ome detto, però, in chiave protettiva per il singolo sano non si tratta di dispositivi particolarmente efficaci. Il loro impiego diffuso va visto sicuramente come dinamica di carattere sociale, perché comunque consente di ridurre, se tutti indossano la mascherina, il possibile contagio da soggetti che non sanno di poter trasmettere il virus»….
In ogni caso, per ridurre il rischio di diventare inconsciamente “vettori” dell'infezione da Sars2-CoV-19, proteggersi all'esterno è importante. E se non abbiamo ancora le mascherine “ufficiali”, sulla scorta di quanto indica Di Blasio ai newyorchesi anche un altro tessuto è meglio di niente.
A farlo pensare è una ricerca, pubblicata nel 2013 su Disaster Medicine and Public Health Preparedness, che ha esaminato la capacità protettiva di protezioni “fai da te” con tessuti di uso comune nei confronti del virus dell'influenza pandemica. Stando ai risultati dello studio, coordinato da Anne Davies, una mascherina chirurgica riesce a filtrare l'89 per cento delle particelle virali, contro il 72 per cento che si può ottenere con uno strofinaccio e il 50 per cento circa che si realizza con la classica T-shirt.
In generale, quindi, per le protezioni fai da te quanto più un tessuto è “spesso” tanto maggiore può essere la sua capacità di bloccare i virus in uscita da bocca e naso.

Ecco dunque l’utilità sociale delle mascherine "altruiste" (come le chiama il dott. Alessandro Gasbarrini, chirurgo al S. Orsola di Bologna, dove ieri è stato trapiantato il cuore a un adolescente, malgrado l'emergenza covid), e anche delle  mascherine-Mandelli!

Ancora più recente ed ugualmente esemplare l’articolo di Irma D’Aria su “Repubblica” del 7 aprile:

https://www.repubblica.it/salute/medicina-e-ricerca/2020/04/07/news/coronavirus_indossare_mascherine_puo_ridurre_la_diffusione_-253302596/?refresh_ce

Coronavirus: la conferma da uno studio: "Le mascherine riducono la diffusione”
Stavolta a fornire altri dati a riguardo è uno studio pubblicato su 'Nature Medicine’ e condotto dal team di Nancy Leung e Benjamin Cowling del Centro collaboratore dell'Oms per l'epidemiologia e il controllo delle malattie infettive dell'Università di Hong Kong. … I ricercatori hanno esaminato 3.363 individui arruolandone poi 246 che hanno fornito campioni di respiro espirato. I partecipanti sono stati suddivisi in due gruppi: 122 (50%) non hanno indossato la maschera durante la prima raccolta del respiro espirato e 124 (50%) invece l’hanno messa...
Che cosa è emerso? Mediante un test molecolare che serve a dimostrare la presenza del virus, nel 50% dei partecipanti sono state rilevate le infezioni di almeno un virus respiratorio. Di questi 123 partecipanti, 111 (90%) sono stati infettati da coronavirus umano (stagionale) (17), virus influenzale (43) o rinovirus (54). Questi 111 partecipanti sono stati al centro delle analisi dei ricercatori. In particolare, per quel che riguarda i coronavirus stagionali (quindi non quello della pandemia), lo studio ha dimostrato una particolare efficacia nel limitare la loro emissione nei pazienti che indossavano la mascherina. Chi la indossava, non emetteva il virus né nelle goccioline più grandi che in aerosol, cioè il normale atto del respirare
"Sono necessarie ulteriori ricerche per capire se le maschere possono specificamente impedire la trasmissione di Sars-CoV-2", hanno detto gli scienziati. Ma, intanto, per precauzione meglio indossare la mascherina? “Questo studio è interessante perché dimostra come l’uso della mascherina chirurgica sia in grado di ridurre significativamente l’emissione, sia con il semplice respiro che con colpi di tosse o starnuti, di droplets contenenti Coronavirus”, afferma Massimo Andreoni, virologo del Policlinico Tor Vergata e direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive che aggiunge: “Lo studio ha analizzato anche la capacità della mascherina chirurgica di bloccare l’eventuale liberazione di aerosol, cioè di particelle emesse con il respiro contenenti virus ma più piccole (minore di 5 micron) di quelle emesse con goccioline di saliva (droplets 5-10 micron)”. “I ricercatori – puntuallizza Andreoni – hanno studiato i coronavirus stagionali del tutto simili per dimensione a quello della pandemia e hanno confermato in modo inequivocabile l’efficacia della mascherina chirurgica nel ridurre sostanzialmente il rischio di trasmissione virale”.
In Italia alcune Regioni, come la Lombardia e la Toscana hanno deciso di renderle obbligatorie, altre le hanno imposte nei negozi e negli uffici. E neanche gli scienziati sono tutti d'accordo. Cosa dovremmo fare? “In un momento di grande diffusione del virus in cui spesso è difficile distinguere soggetti asintomatici ma positivi e quindi eliminatori di virus - risponde l’infettivologo - può essere opportuno che la mascherina venga indossata da tutti soprattutto in condizioni di rischio di contagio, cioè negli ambienti chiusi o quando ci sono contatti ravvicinati”.
E se di mascherine non ne troviamo più in circolazione, come fare? Benjamin Cowling, che ha guidato lo studio presso il Centro di collaborazione dell'Organizzazione mondiale della sanità (OMS) per l'epidemiologia delle malattie infettive a Hong Kong, ha affermato che questi risultati potrebbero essere estesi a maschere di cotone più semplici. "La mia opinione di esperto è che le maschere di stoffa o di cotone potrebbero avere un effetto, ma forse leggermente meno di una maschera chirurgica correttamente indossata. E in termini di Covid-19, stiamo esaminando ogni possibile misura che potrebbe aiutare". Concorda su strategie d’emergenza anche Andreoni: “Allo stato attuale tutto può andare bene perché si tratta di creare una barriera meccanica, quindi che si tratti di una bandana, di un foulard o di una sciarpa, a fare la differenza è la trama della stoffa: più è fitta meglio protegge, ma deve anche consentire di respirare. Inoltre, deve coprire bene sia la bocca che il naso”.

Quindi, Mandelli, soffia forte e riprendi la produzione: leggiamo proprio adesso che una abitante in “prossimità” di casa tua, Ivana Di Martino, ultramaratoneta e benefattrice, il lunedì di Pasqua ha corso 50 km nelle corsie del suo garage a profitto dell’ospedale milanese San Paolo; e dichiara che “senza problemi” indosserebbe la mascherina per correre. In attesa della benedizione anche della Medicina dello Sport sarda, la prima fornitura potresti fargliela tu!

 
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“Il mezzofondo modenese in questa calda estate 2006 sta vivendo momenti d’alta tensione agonistica, ai suoi capi ci sono atleti come Mohamed Moro, Elisa Cusma e Matteo Villani che stanno riportando le cronache sportive dell’atletica modenese a livelli internazionali.
Mohamed Moro è reduce da una serie di prestazioni che hanno fatto vacillare il record sui 1500 metri detenuto da oltre 40 anni dall’ex olimpionico Renzo Finelli, allenatore dello stesso atleta. Moro nel meeting di Ponzano Veneto è andato vicino a quel record stabilito da Finelli nel 1966… A Ponzano Veneto, dopo aver vinto la gara degli 800 metri nel meeting internazionale di San Marino, con il tempo di 1: 49.66, Moro sì è presentato ai nastri di partenza del meeting Veneto riuscendo a strappare l’invidiabile risultato di 3’46”19, e da quanto ha affermato il suo tecnico, ha ancora ampi margini di miglioramento.
Altro atleta ma stesso allenatore, Matteo Villani, forte siepista italiano, dopo aver mancato per ben due volte il minimo di partecipazione ai campionati europei per solo un decimo di secondo sì e rifatto ampiamente vincendo nella stessa serata di gare con il tempo di 8’28”63, conquistando il lasciapassare per la rassegna continentale di Göteborg. Quasi un incubo quello vissuto dal giovane atleta d’origini parmensi, di casa a Modena da svariati anni ed iscritto alla facoltà di Medicina dell’università di Modena. Villani dopo due gare, a cui aveva dato tutto se stesso, aveva per un solo decimo perso la possibilità di dormire sogni tranquilli, basti pensare che nel meeting internazionale tra Italia Russia Cina e Polonia, era giunto secondo con il tempo di 8’35”10, invece a Ponzano Veneto ha rotto subito gli indugi partendo fortissimo, il passaggio al primo chilometro e stato in 2 minuti e 51 secondi il secondo ha visto transitare Villani in 2 minuti e 53 secondi mentre l’ultimo chilometro ha visto il cronometro fermarsi sui 2 minuti e 45 secondi, ampiamente al di sotto del minimo richiesto”.

L’abbiamo ripescato (senza correggere qualche errorino lessicale) dall’archivio della società modenese Fratellanza 1874, dove in tanti ricordano “il Villo”, a cominciare dai suoi compagni di squadra di allora, Moro appunto, o Giancarlo Bonfiglioli, che insieme a  lui affrontò in quel 2006 la classica “Corrida di San Geminiano”, dove Matteo arrivò terzo italiano (11° assoluto) in 40:41 sui 13,200 km (e Giancarlo 46° in 46:21).
Tutti ricordano anche come in Fratellanza nacque l’idillio che ha portato Matteo, all’epoca specializzando in medicina, a impalmare una giovane e bellissima modenese di San Felice, Giulia Bellini: atleta di valore a sua volta, classe 1984, 18:01 sui 5mila, 37:13 sui 10mila, 1.21:26 alla maratonina di Udine 2007, 1.23 a quella di Rubiera; e in maratona, guidata da Gianni Ferraguti, 2.51 a Firenze nel 2006 e ancora 2.58 a Reggio nel 2012. Da allora in poi, Giulia ha dato a Matteo tre figli, l’ultima 5 mesi fa, e si dedica dunque alla più nobile delle attività umane: per lo sport, c’è sempre tempo, e l’occasione magari verrà buona quando… lo si dirà in fondo.

Matteo Villani

Quattordici anni più tardi, dopo un’olimpiade (Pechino 2008, a 26 anni: Villani ne compirà 38 il prossimo 29 agosto), le cronache hanno riportato Matteo alla ribalta, su un fronte ben più drammatico ma affrontato con la solita determinazione: quello del Covid, che lo vede impegnato come anestesista-rianimatore all’ospedale di Piacenza (dove suo padre Giovanni è primario a Cardiologia e direttore del dipartimento di Emergenza- Urgenza): si era laureato in medicina due mesi dopo le olimpiadi cinesi, il suo lavoro sarebbe a Lugano ma in questi mesi c'è più bisogno qui.
L’ospedale di Piacenza, come sappiamo, per la sua vicinanza a Codogno è stato fin dall’inizio in prima linea nell’emergenza epidemica. Il superlavoro è cominciato in quel drammatico 20 febbraio, quando fu diagnosticata con certezza la presenza del virus in un paziente ricoverato per altre ragioni (anche se i medici sono convinti che la malattia si aggirasse nell’Italia del nord già da un mese): sono stati dieci giorni terribili, durante i quali l’ospedale è riuscito a portare da 10 a 45 i posti di terapia intensiva, ed a Matteo toccava uno dei compiti più ingrati, quello di portare in coma farmacologico e intubare i più gravi (anche se, precisa, è una procedura che si attua solo in casi estremi, perché rappresenta comunque una ‘lesione’ dell’ammalato, che alla fine deve trovare in sé le forze per risorgere), sia per curarli a Piacenza sia per sottoporli ad un rischioso trasferimento verso altri ospedali perché Piacenza non ce la faceva più.

Il dottor Villani, impegnato in turni anche di 14 ore al giorno, conditi da attimi di gioia per una guarigione, e da tante ore di disperazione, ha ‘messo in salvo’ la famiglia, facendola traslocare appunto a San Felice dai suoceri, e si è adattato a una vita monacale (ora et labora) tra la casa di Fidenza e l’ospedale. Salvare un ammalato è come una medaglia olimpica: come ha raccontato a Dario Ricci per “Avvenire” sabato scorso 4 aprile, “Il momento più bello è stato quando il nostro primo paziente, che avevamo intubato giorni prima, si è risvegliato e ci ha chiesto se era già in paradiso. In quel momento lui non vedeva, perché la terapia antivirale può dare anche una cecità temporanea, come effetto collaterale. Coi miei colleghi ci siamo avvicinati e gli abbiamo detto che no, era ancora qui, con noi, ed era in buone mani. Ora è a casa, completamente guarito”.

E la sua generosità di medico l’ha portato, malgrado le precauzioni, a beccarsi il virus pure lui (ne ha parlato il Tg1 dell’8 aprile; facendo venire in mente, a noi vecchi letterati, il manzoniano padre Cristoforo che volontariamente va al lazzaretto e contrae la peste): giunto a casa dopo un’altra giornata piena in reparto, è cominciata la febbre alta, la tosse, l’insufficienza respiratoria. Nei tre giorni più duri Matteo ha recuperato quella grinta che ben ricorda il suo primo allenatore, Gian Paolo Chittolini (gemello del mitico “Spino” patron della maratona verdiana e a sua volta allenatore di Lambruschini e tanti altri campioni): di quando il ragazzino veniva agli allenamenti in bicicletta attraversando campi coltivati e fangosi, dove una volta cadde rompendosi un braccio. Ma una settimana dopo si ripresentò all’allenamento col braccio ingessato. Al che “Chitto” lo scongiurò di non venire, perché rischiava di rompersi anche l’altro braccio: cosa che puntualmente accadde, come tuttavia puntualmente accadde che il Matteo tredicenne si ripresentasse al campo con due gessi. “Tu andrai alle Olimpiadi di Pechino per la maratona”, gli disse Chittolini, sbagliando solo la specialità: anche se Gian Paolo continua a giurare che Matteo era più portato per le distanze lunghe, e che se avesse potuto allenarsi due volte al giorno (cosa che non faceva mai, perché doveva studiare) oggi sarebbe ricordato come uno dei più forti maratoneti della storia italiana.

Comunque, si diceva, il dottor Villani si è comportato oggi, in emergenza sanitaria, come si comportava a metà anni Novanta: gesso o non gesso, tirando dritto. Grazie anche alle cure di papà Giovanni (2.45:06 in maratona, a 50 anni senza troppa preparazione - il quale peraltro si dice “sorpreso” di come il figlio abbia saputo gestirsi da solo), sta finendo la sua quarantena, approfittando del tempo forzatamente libero si allena in casa, ma non vede l’ora che un ‘tampone’ negativo (previsto appunto in questi giorni) lo riporti in pista, pardon in corsia e nelle stanze della rianimazione.

E alla fine dell’avventura, ci piacerebbe vedere finalmente il dottor Matteo a dimostrare quello che vale sul ‘nostro’ terreno, magari giusto in quella maratona di casa sua, la Salso-Fidenza-Busseto creata, come si diceva, dall’altro “Chitto”: dove qualche volta Matteo-atleta ha fatto capolino, giungendo per esempio secondo, dietro Lambruschini (in una sfida fratricida tra gli allievi dei due gemelli Chittolini), nella 10 km Salso-Fidenza; oppure vincendo simbolicamente, con Sara Galimberti, la Roncole-Busseto organizzata da “Spino” nel 2013, bicentenario verdiano, in anteprima della maratona.
È quasi un invito.

 
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Questa volta non siamo di fronte allo sportivo che scrive, o si fa scrivere, un libro: perché lo fanno tutti, perché se arrivo da Fazio il successo è assicurato, o più semplicemente perché se la mia vita interessa a me deve per forza interessare agli altri. No, Claudio Bagnasco (Genova 1975; residente a Tortolì in Sardegna dal 2013) è uno scrittore e docente di scrittura, autore con questo di sei libri, che ha cominciato a pubblicare volumi dal 2010 scoprendo invece il podismo solo molto dopo, nel 2016. Secondo la Fidal avrebbe corso tre maratonine tra il 2018 e il ’19 con un record di 1.38, ma le maxiclassifiche gli accreditano già cinque maratone a partire dal 2017, con una significativa progressione che l’ha portato al 3.33 di Carrara un anno fa.
Da qualche mese gestisce, con la compagna Giovanna, un blog letterario (https://squadernauti.wordpress.com), che ospita testi originali e recensioni, promettendo pure una sezione “oltraggi” che vorrebbe provare “a non avere paura dei limiti” e “non avere paura di offendere”. In un mondo dove la recensione è ridotta a marchetta, e i recensori di oggi rendono il favore a chi li ha recensiti ieri giurando ovviamente (gli uni e gli altri) sulla imperdibilità del libro, resto con la curiosità di vedere qualcosa in quest’ultimo gruppo, ma per ora lo trovo vuoto.
Chissà in quale categoria meriterebbe di stare la pagina che voi 22 lettori state scorrendo, se comincia col dire che il titolo è brutto, e la parola Runningsofia non merita di accrescere la mole dei vocabolari; certo, “filosofia della corsa” (sottotitolo) avrebbe allontanato i lettori per diletto e sollevato le sopracciglia dei lettori professionali. Ma ormai, i libri sulla corsa (nel senso di podismo) sono tanti (dal 1970 a oggi, 471 hanno nel titolo la parola “correre”, 1895 “corsa”) cosicché i titoli possibili, cominciando da “correre è bello”, sono quasi esauriti, e bisogna azzardare qualcosa di nuovo ma non troppo audace (“dromosofia”, o “filodromia”,come forse l’avrebbe intitolata un filosofo greco, oggi farebbero pensare ai dromedari): e l’inglese è sempre trendy, sebbene “running” appaia già in 2312 titoli (ma si capisce, non è tutto running in scarpette). Ma deve aver influito l’editore, che incurante del suo nome raffinato, evidentemente non soddisfatto della sua vecchia pubblicazione Filosofia della danza, ha imposto titoli come Rocksofia e Bikesofia, e chissà se rifiuterebbe un mio family book intitolato alla nonna Sofia, alla prozia e alla zia Sofia e last but not least alla nipote Sofia. 
A chi si rivolge il libro? La dedica d’autore è “a Simona e Agata, così imparano”, e fa venire in mente la dedica del primo libro autobiografico di Guccini, Croniche epafaniche (1989) “a Teresa, sperando che impari. Ad Angela, così impara”; affetti personali a parte, direi che il destinatario ideale non sia il podista (che troverebbe inutilmente pedanti le note a piè di pagina per spiegare concetti abusati come le ripetute o la pronazione o il testimonial) ma il lettore normale, l’homo sapiens sapiens che dopo le scuole ha abbandonato completamente l’“educazione fisica”, e con essa un approccio più naturale alla vita.

Ciò non toglie che già la stessa prefazione di Fulvio Massini (allenatore di Bagnasco), e le citazioni dello stesso tecnico nel corso del libro (10, se ho contato bene), orientino inizialmente la scrittura sulla falsariga dei manuali tecnici (abbigliamento, stile di corsa, metodologie di allenamento, perfino come respirare o allacciarsi le scarpe), ma senza cadere nell’iperspecialismo cartaceo, di cui sono piene le fosse e che a mio parere, dopo un iniziale entusiasmo, lascia indifferente il 90% dei praticanti.
Bagnasco vuole convincere chi non corre a passare dalla nostra sponda, per averne vantaggi nella salute fisica e soprattutto mentale: perché la sofferenza, innegabile almeno nelle corse più lunghe e in quella che insistentemente viene chiamata la gara regina, migliora la salute (checché ne pensino i proibizionisti dell’era-covid) ma soprattutto tempra la mente. Nel bene, e qualche volta nel male.
L’autore professa di non essere psicologo o sociologo, ma appoggiandosi anche ai suoi ispiratori e amici Gastone Breccia (11 citazioni), Paolo Maccagno (8 citazioni) e Roberto Weber (4) sa penetrare, spesso con finezza, nella mente e nell’indole del podista, e più in generale della persona “con” o “senza” podismo, cercando di trascinare chi non fa sport a vedere nella pratica quotidiana della corsa non un “di più” (da evitare se ci sono altre incombenze) ma una “attività connaturata”, che dà vantaggi sia nella versione “stanziale” (sempre sullo stesso percorso) sia nella modalità dell’“esploratore”, che ogni volta va alla scoperta di un tracciato nuovo.

Per fortuna, non è un elogio incondizionato, a prescindere, di qualunque esemplare della fauna podistica: non va bene, per esempio, rendersi schiavi dei cronometri millefunzioni, degli smartphone, dei selfie, della “sequela di baggianate” da infilare nei blog (p. 61), arrivando addirittura a una “ludopatia” in base alla quale non esiste più né il mondo né la famiglia. Trovo tuttavia a volte esagerate le critiche, che si rivolgono addirittura a chi per correre indossa abiti sgargianti o strani, o prima del via si lascia andare a una “logorrea da picnic” (così a p. 29) che sarebbero sintomi di paura e di fallimento; oppure a chi durante una maratona si pone come solo scopo il finirla, comunque vada. Il che – penso – è negativo se assunto come atteggiamento di base da parte dei collezionisti di ‘tacche’, ma altre volte si accosta all’eroismo, o comunque alla suprema forza di volontà, quando ti capita nel bel mezzo di una maratona (una storta, una tendinite, una vescica, e semplicemente l’esaurimento delle energie, lo sfinimento insomma), e tu decidi che comunque non salirai sulla vettura-scopa e al traguardo ci arriverai.

Senza generalizzare, credo che casi come questi ultimi rientrino nella “mistica della corsa”, cui è dedicata la seconda metà del libro, la più ‘filosofica’, pure nel senso che ad un certo punto bisogna seguire il ragionamento dell’autore nella sua logica interna, anche se questa logica pare a volte un tantino estremizzante. D’accordo, d’accordissimo che la corsa ci riavvicina allo stato di natura, anche nelle sue difficoltà, ci insegna a fallire e a rialzarci traendo ammaestramento dalle cadute, ci ammonisce sulla nostra finitezza aiutandoci a trovare il nostro equilibrio. Dove il ragionamento mi sembra un po’ spericolato, un tantinello esagerato, è nell’ultima decina di pagine, quando si comincia a dire che “correre è corteggiare la morte. È tentare l’impossibile travaso della morte nella vita”.

A questo punto, un qualche recensore da talk-show comincerebbe a toccarsi ed esclamare “pussa via!” o “li mortacci tua!”: preferisco piuttosto affidarmi al possibilismo non dogmatico delle parole conclusive (prima di un’appendice sulla maratona, dove le citazioni dai maîtres-à-penser o testimonials si sprecano): “Chissà se c’è una risposta giusta, e quale mai sarà. Vado a correre e a pensarci su. Venite anche voi?”.

 

Abbiamo parlato di: Claudio Bagnasco, Runnningsofia. Filosofia della corsa. Genova, Il nuovo melangolo, ottobre 2019, 127 pagine.

 

 
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31 marzo - Cadono come birilli le corse italiane, anche quelle di luglio; invece, la suggestiva eco-maratona di Monschau, che si svolge per boschi e collinette tra Bonn e Aquisgrana e la cui 44^ edizione (sui 56 e 44 km) è prevista per il prossimo 9 agosto, al momento tiene duro e manda un messaggio agli sportivi: continuate a correre e respirare aria buona! Ecco il messaggio inviato oggi:

Cari podisti, vi state ovviamente chiedendo, in questa turbolenta “stagione-Corona”, se la maratona di Monschau ci sarà o no? Su questo preciso punto nessuno oggi è in condizione di darvi una risposta sicura. Noi dell’organizzazione continuiamo a portare avanti tutta la preparazione, e speriamo che l’evento si possa svolgere regolarmente. Vi informeremo sollecitamente se ci saranno novità. Ma adesso la prima cosa certa è che tutta la nostra responsabilità deve indirizzarsi ad arginare quanto più si può la pandemia.

Grazie per la vostra comprensione, e rimanete sani! E fate il pieno di aria fresca, malgrado “Corona”. È stabilito chiaramente cosa adesso si può fare e cosa no. Noi della Monschau-Marathon ci atteniamo strettamente alle norme emanate dallo Stato e da ogni singolo Land. Tuttavia, per conservare la mente limpida, vi suggeriamo di farvi regolarmente un’uscita a respirare aria fresca. Fa bene, libera la mente e dà le ali ai piedi.

Impiegate un po’ del vostro tempo per fare un giro di passo, ad andatura allegra, di corsa più o meno impegnata [difficile rendere le sfumature dei tre verbi: laufen, joggen, rennen], da soli o con la famiglia, osservando rigorosamente le direttive pubbliche: tutto ciò fa bene e dà anche la possibilità di muoversi spensieratamente. Così riusciremo a sopportare un pochino meglio questa situazione contingente, e magari ci verrà anche qualche idea nuova…

Al momento, resiste anche l’elvetica Swiss-Alpine-Marathon di Davos, la gara su vari chilometraggi (la gara principe è sui 68 km) tra le montagne incantate di Thomas Mann, programmata per il 25 luglio, e che ugualmente oggi scrive agli sportivi:

Questi mesi e giorni ci stanno mettendo alla prova e non sono certamente facili per nessuno di noi. Stiamo osservando attentamente la situazione e ci prepariamo a ogni genere di eventualità. La cosa più importante è che voi e le vostre famiglie restino in salute. Sapete che tutto il mondo sta combattendo contro il Covid-19, e anche noi stiamo facendo la nostra parte: sono giorni del tutto eccezionali. Ognuno è impegnato e deve usare tutto il suo spirito di disciplina e di solidarietà per aiutare a vincere questa lotta contro il tempo e contro il virus. Noi ci mettiamo tutta la nostra fiducia ed energia e continuiamo ad agire per rendere possibile lo svolgimento nella data prevista del 25 luglio.
Data l’eccezionalità delle circostanze, abbiamo esteso fino al 30 aprile la possibilità di iscriversi col prezzo ridotto del secondo scaglione.

 
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Un altro dei tanti gesti di generosità che i gruppi podistici stanno facendo in questi giorni viene dai  “Lumaconi delle 5.55” di Bollate/Novate (Milano), che questo giovedì 26 hanno deciso di devolvere il ricavato della loro colletta all’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, al cui personale hanno indirizzato la lettera che segue.

Il Covid 19 è entrato prepotentemente nelle nostre vite. Tanti sono stati contagiati e per voi si è spalancato l’inferno. Fondamentale era evitare ogni forma di trasmissione: da qui tutta una serie di divieti, tra cui il correre. Tra le categorie sotto accusa per la diffusione del contagio c’è quella di noi podisti: untori, egoisti della peggior specie, narcisi della propria forma fisica. A dar fiato a tutto ciò quei quattro imbecilli che, nonostante il divieto, hanno continuato a correre. Forse anche a contribuire alla diffusione del virus, certamente a non dare quel buon esempio che invece la vostra categoria ha dato con la sua dose di sacro impegno quotidiano.
Non tutti i podisti, però, sono accumunati dalla medesima dabbenaggine.
Il nostro gruppo, i “I Lumaconi delle 5.55” non solo si è attenuto scrupolosamente alle regole, ma ha voluto fare qualcosa a favore di chi sta in prima linea, come Voi, a combattere. Ci siamo inventati un nuovo tipo di corsa: quello di essere solidali con chi invece deve correre all’ospedale per curare i malati. Da qualche settimana l’icona della lumaca del nostro gruppo non rappresenta solo la lentezza con la quale tanti di noi corrono. La casa della lumaca è diventata anche il nostro #iorestoacasa.
Noi non siamo una Asd,non siamo nulla di burocratico, siamo solo delle ‘persone’ prima di ogni cosa, persone che corrono, persone con un cuore grande che ha smesso di correre e di rispettare il bene altrui stando a casa.
Per le gare ci sarà tutto il tempo che vorremo per la vita no.
Nonostante vicino a noi ci fossero altre strutture e personale che lotta come Voi, la nostra scelta su chi aiutare ha varcato la provincia dove viviamo. Abbiamo scelto il vostro ospedale. Quello di Bergamo, nella città dove tante volte siamo venuti a correre la nostra domenicale tapasciata.
È con immenso piacere che confermiamo di avervi bonificato la somma di 1.100 € sul vostro conto corrente.
Sarà forse poco, certamente non farà la differenza per l’ospedale Papa Giovanni XXIII. Vogliamo però sia un segno tangibile che non tutti i runners sono degli imbecilli. A voi il nostro incoraggiamento per sconfiggere il Coronavirus; a noi la speranza che, terminata questa brutta storia, si possa tornare a correre sulle vostre strade, rimirando dall’alto della città Alta tutta la bella Bergamo.
Forza Berghem, al se mola mia: I Lumaconi delle 5.55 sono con voi!

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